Il 31 ottobre è uscito nelle sale “Fino Alla Fine”, nuovo film di Gabriele Muccino, prodotto da Lotus Production con Rai Cinema, Adler ed Ela Film. Tra i protagonisti della vicenda troviamo il giovane e carismatico Komandante, interpretato magistralmente da Lorenzo Richelmy.
Su “La voce dello schermo” abbiamo ritrovato proprio Lorenzo che, tra Komandante e le altre interpretazioni degne di nota della propria carriera, ci ha regalato una chiacchierata molto interessante. L’attore spezzino ha, infatti, parlato di “Fino alla fine”, degli aspetti che rendono il film un prodotto avvincente e vicino alla cinematografia americana, di cosa abbia significato per lui interpretare Komandante e di quanto un personaggio del genere sia fondamentale per la svolta thriller di Muccino. Ma non è tutto, abbiamo scoperto quanto siano state importanti le scelte fatte da Lorenzo: dal non essere precipitoso nell’iniziare a recitare al termine della sua prima esperienza televisiva, grazie anche ai consigli di Claudia Pandolfi e Giorgio Tirabassi; fino a rinunciare a trasferirsi in America per proseguire la propria carriera oltreoceano, preferendo restare in Italia ma senza mai smettere di mettersi alla prova e di sperimentare. A voi l’intervista a un attore che prova a ridurre le distanze tra cinema italiano e quello americano attraverso le proprie interpretazioni e di cui dovremmo andare fieri per la sua voglia di osare…
Salve Lorenzo, bentornato su “La voce dello schermo”. Parliamo di “Fino alla fine”, il nuovo film di Muccino. Tu sei stato sempre molto attento a cosa interpretare, scegliendo sempre progetti che fossero per te stimolanti. Cosa ti ha convinto di questo progetto?
Salve a tutti, grazie. Sicuramente il ruolo mi ha conquistato sin dall’inizio. Credo sia fondamentale che il personaggio mi convinca, che presenti qualcosa che mi diverta e di diverso rispetto alle esperienze precedenti. In questo caso Komandante si prestava molto a farmi toccare corde differenti: è molto specifico, palermitano, con un passato molto travagliato, con un po’ di genialità e un po’ di galera alle spalle. Cimentarmi a fare un ruolo del genere all’interno di un confine artistico come quello di Muccino mi interessava molto. È stato bello poter portare in un film di un autore nazional popolare un personaggio molto sporco.
Il film si presenta essere diverso dalla tipologia di film diretti da Muccino. Pensi sia stato uno stimolo in più per interpretare Komandante?
Beh, sì. Komandante simboleggia la diversità di questo film rispetto a ciò che ha fatto prima Gabriele. Un personaggio come lui non sarebbe potuto esistere negli altri suoi film. In questo caso, all’interno di questo genere, può prendere vita. Rispetto agli altri suoi film, in cui era presente uno studio e un approfondimento maggiore nei confronti delle relazioni umane, in “Fino alla fine” c’è il thriller, l’azione e il film si sofferma sui tratti forti e stilizzati dei personaggi, ponendo l’attenzione, più che sulla loro psicologia, su quello che fanno e ne combineranno di cotte e di crude.
Hai girato con cadenza siciliana e a Palermo. Che esperienza è stata recitare in terra sicula e diventare siciliano? Cosa ti ha regalato una città come Palermo?
Mi sono innamorato tantissimo, non c’ero mai stato da adulto ed è un teatro di città. Tutto il film è ambientato lì, la maggior parte delle scene sono in esterna e in luoghi molto iconici. Si vedono le due anime di Palermo, quella giornaliera e quella notturna. È stato molto importante perché durante le due settimane di prove mi hanno dato l’opportunità di girare nei quartieri di Ballarò e della Vucciria. Andavo in giro con un gruppo di siciliani per prendere tutto quello che potevo da ragazzi nati e cresciuti lì. Infine, possiedo una grande passione per l’oriente e Palermo è assolutamente orientale.
Riguardo Muccino, cosa ti ha colpito di lui e cosa ti ha chiesto di dare a Komandante?
Mi ha colpito il fatto che ci tenga tantissimo agli attori ed è un aspetto molto raro adesso per i registi, che sono più concentrati sul quadro, sul frame e sul virtuosismo registico. Lui invece, essendo un po’ vecchia scuola e appassionato delle storie, sa benissimo che se gli attori non vanno bene, non sono organici e una scena non funziona a tavolino, il film non potrà mai essere interessante. Ho trovato in lui un regista innamorato degli attori, ed è fondamentale perché mentre giri hai un supporto, qualcuno che tifa per te e ti spinge al limite. È focoso, dinamico, ti urla, ti tocca e si infiamma con te per cercare il suo stato creativo più fertile. È un aspetto che mi piace molto. Inoltre tecnicamente è molto preparato e, avendo lavorato molto all’estero, ho riconosciuto delle competenze molto rare in Italia sull’utilizzo della macchina e il film è pieno di sperimentazione, presentando anche inquadrature e tecniche particolari. È molto coraggioso, abbiamo girato in due lingue per avere sia la versione italiana che quella americana, pulita e non doppiata. È un ariete, che prende a capocciate gli ostacoli e ha un coraggio che potrebbe risultare sconsiderato per le scelte che ha fatto, ma che vive il rischio. Facciamo un mestiere per cui io godo nel provare cose nuove e nel rischiare a fare cose che magari non piaceranno a tutti però sono interessanti da vedere.
Come avete reso la cadenza siciliana nella versione americana?
Si cerca di portare quello spirito, riproducendo un italiano maccheronico ma stando attenti a non emulare l’effetto “Il Padrino” ed evitando di diventare macchiette.
Il pubblico deve vedere “Fino alla fine” perché…
È un film che fatto da Muccino secondo me può rappresentare un ponte tra il nostro cinema e quello americano ed è giusto che lo faccia uno come lui. È uno dei pochi che è andato in America a fare l’americano. Rappresenta l’Italia che prova a raccontare le proprie storie a tutti ed è un film molto leggibile al di fuori del nostro Paese. Se pensiamo ai nostri film, da Benigni in poi, sono molto legati all’italianità. In questo caso, invece, si vede Palermo ma Muccino, nel suo essere nazional-popolare, riesce a rendere universale una storia ambientata lì e la fa diventare quasi una tragedia greca. Il racconto viene raccontato in un modo innovativo e vale sicuramente la pena vedere “Fino alla fine” perché ti tiene incollato allo schermo per due ore.
Il film parla di scelte che definiscono e determinano chi siamo. Quale pensi sia stata quella più importante che abbia determinato chi fossi tu artisticamente?
Ne individuo due: la prima è sicuramente “I Liceali” quando avevo circa diciassette anni. In quel momento avrei dovuto capire se cominciare a lavorare sin da subito perché, visto il successo della serie, sarebbe stato facile approdare in altre serie televisive. Invece decisi, sotto consiglio di Claudia Pandolfi e Giorgio Tirabassi, di provare a entrare al Centro Sperimentale e fu una scelta di campo molto importante per me. Significava o provare a fare questo lavoro oppure mettermi a studiare, capirlo fino in fondo e poi provare a iniziare una carriera. Un altro momento molto topico per me è stato, inoltre, quando ho finito di girare “Marco Polo” in America. Finita quell’esperienza avevo creato molti contatti lì e vari manager e agenti che avevo all’epoca erano tutti convinti che io volessi proseguire oltreoceano. Dopo un periodo passato a Los Angeles, ho capito che non sarei stato davvero felice lì e sono tornato in Italia per provare a lavorare non per diventare qualcuno che non sono ma per tentare anche, se si può, di cercare di migliorare il panorama creativo italiano.
Possiamo dire che, per certi versi, vuoi fare l’Americano in Italia?
Mi ci sento, sì. Mi sono innamorato del cinema con Tarantino e Paul Thomas Anderson e gli americani sono stati quelli che hanno preso le cose belle che facevamo noi e le hanno portate a livelli altissimi, noi non ci siamo riusciti. Non mi riferisco soltanto allo Star System, parlo del fatto che quando vado in Inghilterra o in America il livello di lavoro è comunque più alto perché è un’industria su cui hanno lavorato tantissimo ed esiste, mentre qui in Italia siamo tutti monadi di produttori che cercano di farcela ed è un peccato. Da anni mi manca e mi dispiace che non ci sia un rappresentate italiano a Hollywood, mentre tutte le altre nazioni europee l’hanno: c’è Javier Bardem, Christoph Waltz, prima c’era Antonio Banderas, Vincent Cassel ma manca sempre qualcuno di italiano. Abbiamo avuto Castellitto e Favino che hanno lavorato all’estero ma non hanno mai preso il ruolo da protagonista perché portano nel mondo il loro essere attori italiani. Questa cosa un po’ mi manca e adesso abbiamo Alessandro Borghi e Luca Marinelli che hanno tutte le carte in regola per farcela anche all’estero e speriamo che l’industria italiana si renda conto che abbiamo degli attori a grandi livelli artistici.
Secondo te il percorso di un attore è determinato anche dal caso o soltanto dalle scelte?
Credo sia determinato al 95% dal caso. È un discorso simile a quello della vita: quanto avere una vita bella è determinato dalle scelte e quanto dal caso? Il caso determina se sarai in salute, alto, magro, grosso, biondo etc. poi le scelte che farai saranno quelle che ti permetteranno di trovare un equilibrio con quello che ti è stato dato dal mondo e quello che vorresti fare tu. Io direi il successo è determinato più dal caso, mentre il benessere personale più dalle scelte.
Di recente ti abbiamo visto anche in “Eravamo bambini”, film di Marco Martani ambientato in Calabria. Hai interpretato Walter, con lui hai potuto giocare molto con il tuo aspetto tra tatuaggi e look biondo. È un film che raccontava di come il dolore cambi le persone. Cosa hai amato di questa esperienza?
Mi chiamò Marco Martani dicendomi che secondo lui sarei stato perfetto per questo ruolo. La sceneggiatura era tratta da uno spettacolo teatrale di Massimiliano Bruno e il fatto che ci fosse una base di teatro mi convinceva sul potenziale narrativo del film. Inoltre, avevo la possibilità di fare un trapper, tatuato in faccia e super estetizzato come uno Sfera Ebbasta di oggi e mi interessava molto. Quando mi metto una maschera o mi camuffo mi sento libero e mi diverto a fare questo mestiere. Il lavoro che mi ha permesso di fare Marco in quel film era in completa libertà e fare vivere un personaggio di quel tipo, senza che lo guardi e storci il naso, porta il pallino più avanti all’interno della cinematografia italiana e fa vedere che si può fare qualcosa di diverso e particolare.
Com’è stato condividere il set con i tuoi colleghi?
Un’altra caratteristica che rende il film interessante è che si tratta di un film di attori. Ho trovato un cast fantastico con trentenni formidabili e che vorrei vedere di più. Credo che la mia generazione non sia uscita ancora fuori. Non vedo l’ora che tutta questa fascia di attori cresciuta tra il teatro all’italiana ma vedendo anche i grandi film hollywoodiani faccia vedere cosa è capace di fare, perché può portare qualcosa di diverso dalle generazioni che ci hanno preceduto. Un attore magnifico come Favino non può portare la modernità di Luca Marinelli, perché è un’altra generazione. Spero che si spinga sempre di più nel dare fiducia alle nuove generazioni perché ne abbiamo bisogno, altrimenti continueremo a dare fiducia ai sessantenni e a dire che siamo tutti giovani e belli.
Che tipo di attore ti definiresti?
Un attore fisico, più di pancia che di testa.
Se fossi un giornalista che domanda faresti a Lorenzo?
Chiederei: “Cosa significa fare l’attore oggi?” e risponderei che è molto più interessante di prima. Siamo in un momento in cui l’Italia è sempre più indietro da questo punto di vista e sulla carta d’identità non posso scrivere che faccio l’attore di professione perché non è praticamente visto come un lavoro, però rispetto a prima è molto più un lavoro e in cui il divismo non esiste quasi più. Quando eravamo ragazzini compravamo le figurine del “Titanic” perché volevamo vedere di più Di Caprio, adesso non c’è più quel divismo. Da una parte può essere un po’ un peccato perché si è perso il sogno e siamo molto più disillusi, da un’altra lo ritengo un aspetto molto più interessante perché oggi l’attore cura il contenuto piuttosto che l’estetica. Ovviamente ci saranno sempre gli eventi in cui l’estetica sarà importante, ma essendoci meno interesse si torna al contenuto ed è secondo me un aspetto fondamentale del cinema.
Ti abbiamo visto a lavoro con Claudia Gerini, Claudia Pandolfi, Leo Gassman, Claudio Amendola e Sara Drago. C’è qualcosa che puoi anticiparci riguardo questo progetto?
Sarà una commedia e uscirà al cinema probabilmente il prossimo anno. È interessante perché si tratterà di cinema che racconterà la televisione. Interpreterò un personaggio molto lontano rispetto a Komandante, è stato divertente e non posso dire altro. Mi sono cimentato nella commedia, che non faccio quasi mai in Italia ed è un po’ un esperimento. Vediamo come andrà…
Di Francesco Sciortino