La voce dello schermo prosegue il suo percorso di interviste che riguardanti i grandi protagonisti del cinema e della tv odierna. L’ospite di oggi è Marco Bonini, ammirato in pellicole come “Smetto Quando Voglio – Masterclass”, “Smetto Quando Voglio – Ad Honorem”, “Diciotto anni dopo” e tanti altri successi di cinema e tv. L’attore romano ha presentato “Mr Dago Show”, lo spettacolo musicale di cui è protagonista, ha parlato del rapporto fraterno che lo lega a Edoardo Leo, con cui ha condiviso diverse esperienze sul set, e infine ha fatto alcune riflessioni sul cinema e televisione dei nostri giorni.
Salve Marco, benvenuto su “La voce dello schermo”. Parliamo dei progetti attuali. Dove ti vedremo prossimamente? Puoi presentarci qualcosa?
Sto portando in giro un mio spettacolo musicale “Mr Dago Show”, che racconta la storia di un cabarettista italiano ebreo che scappa in America dopo le leggi raziali fasciste ed è costretto ad entrare in clandestinità a New York a causa di quote molto restrittive per le etnie “non ariane” nelle quali rientravano anche gli italiani. Il mio protagonista è discriminato due volte dagli italiani perché è ebreo e dagli americani perché italiano, di conseguenza è un “non ariano”. Al cinema sto finendo di girare l’opera prima di Benedetta Pontellini che vedrete il prossimo inverno. Una commedia romantica molto divertente in cui sarò Cupido che stanco di andare più a segno con le sue frecce decide di farsi uomo e di innamorarsi di un essere umano per capire quale sia il problema!
Di recente hai anche scritto “Se ami qualcuno dillo”. Cosa rappresenta per te la scrittura e cosa ti ha spinto a realizzare questo libro?
Scrivere è un modo di dare senso al mondo e alla nostra vita. È il modo migliore per ordinare una serie di eventi in un ordine comprensibile, è un modo per capire e capirsi. Questo libro parte da un evento autobiografico che ha un enorme potenziale simbolico e per questo ho sentito la necessità di farlo diventare un racconto pubblico.
Sei stato protagonista della seconda e terza parte di una delle commedie italiane più importanti degli ultimi anni: “Smetto quando voglio”. Cosa porti nel cuore di questa esperienza?
La convinzione che la commedia all’italiana sia “lo bello stile che ci ha fatto onore” e che quella sia la strada migliore per noi… come lo è sempre stato da Dante a Sydney Sibilia.
Cosa ha portato di nuovo secondo te “Smetto quando voglio”?
Ha ritrovato il gusto di giocare con i ribaltamenti degli stereotipi.
Come giudichi il cinema e la serialità italiana odierna? Quali sono i punti deboli e i punti di forza?
Scrivere oggi è molto complesso perché non abbiamo una mitologia di riferimento con cui giocare di sponda. Omero aveva la mitologia classica, Dante la mitologia cristiano cattolica, i maestri della commedia avevano un mondo diviso in classi sociali, avevano la chiesa e il PCI, Don Camillo e Peppone. Noi siamo soli, atomizzati, dispersi in un mondo senza società, senza ideologie, senza religioni, senza modelli collettivi su cui giocare. Cinema e Televisione risentono di questo problema. È per questo che quando un autore intercetta un mondo e lo racconta con ironia si grida al miracolo. Spesso oggi ci si concentra solo sull’intreccio, un plot sorprendente, ma il punto di un racconto collettivo, che sia cinema Tv o letteratura, non è l’intreccio… è il senso. Che mondo si vede, che mondo si rappresenta, quali sono le sue regole e come si possono cambiare per migliorarle. Questo oggi manca… ed è sicuramente un limite oggettivo dei tempi ma è di conseguenza un nostro limite di narratori. Siamo costretti a essere ancora più bravi… che considerando il talento dei nostri “nonni” è un’impresa ardua.
Quali sono gli altri lavori che ricordi con maggiore piacere e perché?
L’opera prima di Edoardo Leo “Diciotto anni dopo”, che ho scritto e interpretato con lui, è senza dubbio il film che amo di più di tutta la mia carriera. Sia per motivi personali, dal momento che Edoardo è il mio migliore amico da 40 anni, sia per motivi artistici: quel film è un miracolo di grazia, ironia, intelligenza e amore. Non siamo ancora riusciti a ripetere quel miracolo nei film successivi. Ma non molliamo.
Qual è stato per te il ruolo più difficile da interpretare durante la tua carriera e perché?
Il più difficile, quello che mi ha tenuto sveglio per mesi, è stato “Caligola” di Camus, a teatro. Un testo che spero di riaffrontare un giorno. Complessissimo.
Questo portale si chiama “La voce dello schermo”. Cosa significa per te ascoltare la voce dello schermo?
Significa fidarmi che chi ha scritto e chi ha pronunciato quelle parole che ora stanno uscendo dallo schermo lo abbia fatto con passione, intelligenza e con spirito di servizio pubblico. Quando si pretende di parlare a tutti si deve avere la responsabilità civile di dire qualcosa che riguardi tutti, che interessi tutti e che possa aiutare tutti. Questo è l’atteggiamento con cui mi siedo al computer e tocco questa tastiera.
Di Francesco Sciortino