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Intervista a Lorenzo Richelmy: “Siamo pronti per un cinema europeo” L'attore, in queste settimane su Amazon Prime Video ne "Il talento del calabrone", si racconta su "La voce dello schermo".

Dic 9, 2020

Lorenzo Richelmy ha saputo farsi apprezzare sia in Italia che all’estero per le sue interpretazioni. “Marco Polo” ha sancito il suo debutto con la grande serialità internazionale firmata Netflix, di recente è stato tra i protagonisti della serie “Sanctuary” accanto a Matthew Modine e dal 18 novembre lo stiamo vedendo su Amazon Prime Video ne “Il Talento del calabrone” di Giacomo Cimini accanto a Sergio Castellitto e Anna Foglietta. Con grande piacere su “La voce dello schermo” abbiamo intervistato Lorenzo, che ci ha confidato cosa abbia significato per lui vestire i panni di Dj Stef nel film di Cimini, ci ha parlato della sua idea di cinema europeo e di quanto sia importante per un attore serntirsi libero sul set…

Salve Lorenzo, benvenuto su “La voce dello schermo”. Partiamo dal “Talento del Calabrone”, che stiamo vedendo su Amazon Prime. Quali aspetti ti hanno colpito di questo film e del personaggio di Stefano?

Salve a tutti. Generalmente mi attirano i personaggi molto lontani da me e Stefano lo era. Rappresenta il mondo dei social e la contemporaneità. È il simbolo dei giovani che riescono ad avere successo senza molti contenuti e grazie a dei mezzi nuovi. È la classica rappresentazione di un rischio e di una parte di mondo che non mi esalta.
La trama di questo film mi ha permesso di lavorare su un arco drammaturgico, perché all’inizio vedi il personaggio in un modo e alla fine lo vedi in maniera differente. È un thriller moderno ed è difficile vedere qualcosa del genere in Italia, perché spesso all’interno di questo genere spesso vengono inseriti anche elementi della commedia ad esempio. L’originalità della storia e la difficoltà del personaggio sono stati i motivi che mi hanno spinto ad accettare il ruolo.

Quali sono le difficoltà fisiche e mentali di un’interpretazione del genere?

Fare un intero film nei panni di un DJ radiofonico significava stare praticamente un intero film fermo su una sedia. Nelle mie precedenti interpretazioni sono sempre stato un attore molto fisico e dinamico e, per la mia formazione di stampo teatrale, mi aiuta molto lavorare appoggiandomi anche sull’interpretazione degli altri attori. Ne “Il talento del calabrone”, invece, ho dovuto lavorare molto su di me e in un unico spazio. È un film molto claustrofobico, si gira tutto tra la macchina e lo studio radiofonico. Riporta un po’ all’ambientazione teatrale.
Inoltre, era complicato fare un’analisi della sceneggiatura che non ti rendesse tutto sempre uguale e non creasse un personaggio piatto. Dicono che recitare una telefonata sia molto difficile perché è come se recitassi per due, non avendo nessuno dall’altra parte, e bisogna dare la percezione al pubblico che ci sia un’altra persona dietro la cornetta. Il film è un po’ come la telefonata. È stato un lavoro di preparazione molto approfondito, che difficilmente lasciava spazio all’improvvisazione e nella pratica dovevo cimentarmi con un monologo, nonostante nel film parlassi con il personaggio di Carlo (Sergio Castellitto).

Un elemento chiave di questo film è l’ascolto. Secondo te perché ai nostri giorni si fa fatica ad essere ascoltati?

Perché con l’avvento dei social abbiamo la percezione di poter comunicare e condividere quello che siamo e crediamo di poter stare insieme agli altri anche grazie a questo strumento. Credo che sia un’interpretazione sbagliata. C’è il rischio, come rappresentato dal personaggio del Dj Stef nel film, di diventare qualcuno che non è realmente in grado di ascoltare. Ultimamente, ho la percezione che stiamo diventando sempre più bravi a creare una rappresentazione di noi stessi edulcorata e migliore rispetto a quella che in realtà abbiamo e tutto ciò per farci vedere più belli agli occhi degli altri. Instagram ad esempio ti porta a costruire una versione di te stesso per renderti invidiato dagli altri. Però è un canale unico, non stai parlando con qualcuno, ma stai rappresentando una versione di te stesso. Questo fa sì che tu possa perdere il contatto con chi sei veramente. Sì è perennemente istigati e stimolati a rappresentarsi in maniera più interessante e simpatica, tralasciando debolezze e fragilità, aspetti che invece conoscono i veri amici e non i follower. Gli amici virtuali conoscono soltanto le parti belle di te e che tu vuoi portare fuori e raccontare. Questo mina l’onestà intellettuale di una persona e se non stai attento puoi cominciare a pensare che le parti deboli di te non debbano uscire fuori.

Altro tema che evidenzia il film è lo scontro generazionale…

Il discorso sullo scontro generazionale è un po’ collegato alla risposta precedente, perché la rappresentazione di noi stessi ci porta a far finta di potere ascoltare, di potere intraprendere un dialogo con qualcuno. Questo aspetto viene criticato molto nel film attraverso il personaggio di Carlo. Vediamo uno scontro tra il vecchio colto, che possiede la conoscenza, e il giovane di successo che viene riportato sulla via dell’onestà e a riflettere. È paragonabile allo scontro padre-figlio, maestro-allievo. Il tema sotto traccia del film è quello dell’onestà ed è una spinta ad essere onesti con sé stessi, lavoro molto più difficile di diventare popolari o bravi sui social, e che negli ultimi anni stiamo un po’ dimenticando. Ci troviamo un po’ tutti all’interno della stessa trappola e più crediamo che quell’immagine che rappresentiamo siamo noi veramente, più sarà difficile tornare ad essere noi stessi. È un po’ come, volendo enfatizzare, “perdere l’umanità”.

Di recente hai fatto parte di “Sanctuary” con Matthew Modine. Raccontaci di questa esperienza?

È stato il tipico lavoro che vorrei fare per tutta la vita e spero di continuare a cimentarmi su questo tipo di serie. Mi piace confrontarmi con il mercato europeo, che è un po’ qualcosa di nuovo. Fino a vent’anni fa, se avessimo fatto un film in cui erano presenti un francese, un italiano e uno spagnolo sarebbe sembrata una barzelletta. Oggi è possibile. Nelle grandi città d’Europa ai nostri giorni è facile trovare un gruppo di amici che provengono da nazioni differenti.
“Sanctuary” era un centro di abilitazione mentale, mi sono divertito tantissimo ad interpretare uno psicopatico, un tipo di personaggio che difficilmente avrei interpretato in Italia. Recitare con Matthew Modine, un’istituzione del cinema, e con un cast proveniente da nazioni differenti vuol dire unire diverse culture e personaggi. Tutto questo crea delle situazioni mai viste, per questo mi riferisco ad un cinema o serie di stampo europeo. Perché sono prodotti differenti, che possono raccontare situazioni diverse rispetto alle serie inglesi e americane. Abbiamo un background culturale diverso e nella serie si percepisce. È stata davvero un’esperienza indimenticabile e sono convinto e spero che ci siano sempre più prodotti di questo tipo: che puntino i riflettori su storie europee. Io mi sento europeo.

Come hai vissuto da italiano questo set?

Il lavoro è stato molto bello, è stato stimolante confrontarsi con persone di nazioni diverse. Esperienze come queste ti fanno capire che noi italiani non siamo così bistrattati come si crede, anzi. Soprattutto nell’ambito della recitazione, siamo molto considerati, come testimoniano i recenti premi a Elio Germano a Berlino o i recenti riconoscimenti a Luca Marinelli. C’è nuova generazione di attori italiani pronta per il mercato internazionale. Partecipare a una produzione di questo tipo ti fa capire che un attore italiano può assolutamente far parte di un cast internazionale.

Spesso ti vediamo in Opere prime. Hai dichiarato che ti offrono più libertà. Di che libertà parli?

Quando parlo di libertà interpretativa mi riferisco alla possibilità di poter fare qualcosa che sia un po’ fuori dai canoni. Può capitare a volte, quando sei coinvolto in una produzione più grande, che i produttori abbiamo qualcosa in più da dire o che il regista più affermato possa dirti che preferisce che la scena venga fatta in un certo modo. Per certi versi ho più una visione teatrale in questo, perché a teatro hai la possibilità di fare più tuo un personaggio e di trasmettere meglio quel messaggio che volevi portare, mentre nel cinema e in ambito televisivo spesso capita che devi accordarti con l’idea che si sono fatti regista e produttore. Generalmente, i registi che fanno un’opera prima ascoltano di più l’attore e si apre un dialogo maggiore che si mette anche nella condizione di poter cambiare idea. Come libertà intendo di sentirmi sicuro di poter fare una proposta, che magari non era stata considerata, e con la possibilità che venga accolta. Per me è fondamentale la libertà interpretativa.

Torniamo indietro a “Marco Polo” forse è stato il set che ha permesso la tua “internazionalizzazione”. Che ricordi hai di questa serie e cosa ti ha lasciato?

Grazie a quel lavoro ho avuto la consapevolezza che potevo farcela e che un italiano possa andare a Los Angeles e a Hollywood. Mi ha dato molta più sicurezza. È stata un’avventura e un viaggio pazzesco. Mi ricordo che andai in Malesia a fare il provino e mia madre mi chiese se avessi i soldi per andarci, ma le dissi che era tutto pagato. Quello è stato il primo momento in cui non sapevo ancora cosa mi stesse accadendo. Dopo pochi mesi ero in giro per il mondo a promuovere il film, in elicottero tra Brasile e Australia con la folla dei fan di Netflix che ci aspettava. È stato un po’ come stare su delle gigantesche montagne russe che sono durate tre anni. Sono contentissimo di averlo fatto anche se, facendo questo tipo di esperienza, mi sono un po’ reso conto di quei lati oscuri che quella vita nasconde. Però è stata la realizzazione del mio sogno che avevo sin da bambino. Mi sono goduto l’onda, credo di avere imparato tanto e se oggi non sono a Hollywood o a Los Angeles per cercare di fare quel tipo di carriera lì forse lo devo anche a “Marco Polo”. Nonostante sia stato bellissimo ho deciso di rimanere in Italia per la mia vita. Non sono caduto nel tranello di pensare che quel tipo di vita fosse la cosa più bella che si potesse desiderare. Avendola fatta per un po’ mi sono reso conto che non faceva per me e sono ben contento di essere tornato in Italia, vicino la mia famiglia, ai miei amici e a riprendere la mia vita. Continuo ad andare a Los Angeles una volta l’anno, nonostante quest’anno non ci sia riuscito per ovvi motivi, e continuo a lavorare lì quando posso. È un capitolo di cui sono contentissimo ma sono anche contento che si sia concluso.

Diciamo che tra una vita spericolata e una vita tranquilla preferisci la seconda…

Non saprei… Diciamo che sono più un tipo da trattoria piuttosto che da festini vip.

A proposito di “Una vita spericolata”, il film diretto da Marco Ponti e di cui sei stato protagonista. Cosa ti è piaciuto di questo progetto?

Desideravo lavorare con Marco Ponti perché “Santa Maradona” è stato uno dei film italiani che più ho amato e “Una vita spericolata” seguiva un po’ quella falsa riga. Era una sperimentazione e forse la prima volta in cui mi sono affacciato al mondo del grottesco, con personaggi sopra le righe e la prima volta che mi sia capitato di sentirmi dire: “fai come ti pare, divertiti!”. Tutto il film è stato un po’ così, nonostante sia stato un film molto sfortunato, secondo me, per diversi avvenimenti che hanno un po’ condizionato la realizzazione. Il ricordo più netto di questo film come una serata tra amici e una grande sbronza adolescenziale.

Qual è la cosa più folle che ti sia capitata sul set?

L’evento più folle in assoluto è accaduto sicuramente durante l’ultimo giorno di riprese di “Una vita spericolata”. Con Matilda De Angelis ed Eugenio Franceschini ci trovavamo in montagna, al confine tra Italia e Francia, e stavamo girando in esterna. Avevamo notato un piccolo aeroplano turistico che volava troppo vicino a noi e dopo un minuto l’abbiamo visto schiantarsi. Siamo stati testimoni di un incidente aereo dove fortunatamente non ci sono state vittime. I nostri macchinisti e gli elettricisti sono stati i primi a prestare soccorso ai passeggeri. Penso che difficilmente si possa trovare qualcosa di più assurdo ed estremo da raccontare. Un altro evento è legato più al set e riguarda “Marco Polo”. Durante la fine della prima stagione c’è una scena di battaglia e, in sella al mio cavallo, dovevo fare centocinquanta metri galoppando il più possibile per andare a salvare un altro personaggio. Non dovevo fare altro che galoppare, andando più veloce che potevo e schivando delle comparse, per arrivare a destinazione. Sul set stare a cavallo è una delle cose più divertenti che si possa fare.

Sei stato il figlio di Carlo Verdone in “Sotto una buona stella”. Com’è stato recitare con lui?

Recitare con Carlo è facile, perché è una persona splendida, limpida, trasparente ed è come lo vediamo noi attraverso lo schermo. Ti trasmette grande sicurezza perché è sincero e dice le cose come stanno. Recitare con lui è bello perché è l’uomo più tranquillo che abbia mai visto sul set e lavorare nella tranquillità è sempre molto stimolante. È stata una bella lezione e la dimostrazione che si può fare anche un buon lavoro senza essere stressati.

Questo portale si chiama “La voce dello schermo”. Cosa significa per te ascoltare la voce dello schermo?

Per me la voce dello schermo, più che il suono, rappresenta la sintesi di immagini, sonoro, attori ed è un mix di persone che stanno lavorando contemporaneamente affinché tu possa goderti un film o una serie. Quando tu senti la voce dello schermo significa che un film o una serie sta facendo il suo lavoro, ti sta dicendo qualcosa e sta comunicando con te. Se tu la percepisci, ti dimentichi che stai guardando lo schermo e allora lo schermo ha senso di esistere.

Di Francesco Sciortino

By lavocedelloschermo

Francesco Sciortino, giornalista pubblicista dal 2014, appassionato di serie tv, cinema e doppiaggio. In passato cofondatore della testata online “Ed è subito serial”.

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