Da due anni a questa parte, “Call My Agent – Italia” si sta confermando una delle serie tv più interessanti degli ultimi tempi. A dimostrazione dell’eccelsa qualità della serie, prodotta da Palomar e da Sky e tratta dalla serie francese “Dix Pour Cent”, sono arrivati due riconoscimenti ai Nastri D’Argento, tra cui quello di Migliore Serie Commedia. Abbiamo avuto il piacere di intervistare una delle colonne portanti della CMA: Sara Drago. L’attrice, lanciata dalla serie dopo anni di teatro, ha illuminato la scena con la sua interpretazione nei panni di Lea Martelli, un personaggio complesso, dai tanti contrasti e capace di tener testa alle innumerevoli guest star di spessore presenti nella serie, come Gabriele Muccino, Pierfrancesco Favino, Paolo Sorrentino, Sabrina Impacciatore e tanti altri. Sara si è raccontata su “La voce dello schermo”, parlando di Lea, di cosa abbia significato per lei interpretarla, di quanto il teatro sia stato ed è importante per la propria carriera da attrice e di altri aspetti interessanti che la riguardano. A voi…
Salve Sara. Benvenuta su “La voce dello schermo”. Partiamo da “Call my agent – Italia”, Lea è un personaggio forte, donna determinata e in carriera ma con le proprie fragilità. Hai dovuto lavorare più sulle differenze o sulle somiglianze nell’interpretarla?
Salve a tutti. Grazie. Sicuramente ho attinto da degli aspetti del mio carattere veri e reali, mettendoli al servizio di Lea, ma estremizzandoli. Il motore e la materia magmatica umana naturalmente sono miei. La differenza tra me e lei consiste nel modo in cui agisce su questa forza, fragilità e spietatezza nel raggiungere i propri obiettivi in una maniera che è sua e che non mi appartiene.
Quali aspetti hai amato di lei?
Sicuramente amo la sua determinazione, a volte anche cieca. Allo stesso tempo, mi fanno tenerezza sia l’incastro in cui si trova a gestire le relazioni affettive, che a volte vive come se fosse un’adolescente, e sia la sua fragilità, che presenta un nucleo di vulnerabilità racchiuso e ricoperto da un’armatura da guerriera e da donna che non deve chiedere mai. Amo molto questo contrasto tra la parte fragile e quella forte e spietata di Lea. È un personaggio che incarna degli aspetti in cui ci possiamo riconoscere tutti.
La serie è un continuo districarsi tra finzione e realtà. Com’è stato gestirlo?
È stato molto divertente, in molti momenti ci siamo ritrovati a ridere di gusto di quanto non riuscissimo più a capire quale fosse il confine tra l’azione reale e quella data dal regista. È stato bello riprodurre il “Call My Agent” che stava accadendo nella nostra vita in quel momento e quello dello script. Ho assistito a un pomeriggio del lavoro sul set di Valeria Bruni Tedeschi ed è stato entusiasmante. Durante una scena, Valeria parlava al telefono con sua madre, ma non era una scena scritta sul copione e probabilmente era un’idea che le era venuta sul momento. La vita e la finzione si intrecciavano continuamente ed era un aspetto molto interessante da osservare.
Tra gli episodi più indimenticabili ci sono quello dell’incontro con Sorrentino, del faccia a faccia con Favino e del litigio con Muccino… Non capita tutti i giorni…
Sì, infatti mi ritengo molto fortunata. Il primo progetto televisivo che mi è capitato nella mia vita è stato una bomba. “Call My Agent” è stato una sorta di albero di Natale, fuori stagione, pieno di doni tutti diversi e di altissima qualità. Per me è stata una palestra attoriale, con tutti maestri nel loro campo e persone che hanno raggiunto un livello di lavoro e di esperienza, di talento e di passione che mi hanno tutti lasciato qualcosa di unico, di specifico e di veramente prezioso. Sono veramente grata per questa opportunità.
Lea ha una capacità di fronteggiare gli inconvenienti con naturalezza: come vediamo per esempio nell’episodio con Sabrina Impacciatore. Tu come gestisci gli inconvenienti che ti si presentano davanti?
È vero, Lea è come se fosse una prestigiatrice e avesse sempre un coniglio da tirare fuori dal cilindro. Io, non essendo un agente ma un’attrice, subisco maggiormente l’ansia e la paura quando prendo le mie decisioni o devo gestire degli inconvenienti. Sono più brava nella concretezza a risolvere i problemi di quanto io non mi percepisca brava a farlo.
Cosa significa essere donna nel 2024, secondo te?
Il rapporto con la mia femminilità è un lavoro sempre in cantiere. Non è facile riuscire a essere delle donne che hanno molto chiaro ciò che piace da ciò che non piace, che lavorano sul darsi sempre di più la libertà di esprimerlo, di mettere dei confini e di farli rispettare. La nostra società è estremamente patriarcale, ci vuole molto mansueti e accondiscendenti però ormai una rivoluzione è in atto da molto tempo e non si può più far finta che non sia così. Per me, essere donna significa continuare a lavorare su me stessa, diventare sempre più consapevole di chi sia io e di cosa desidero, di che cosa mi piace e non mi piace, di cosa tollero e di cosa non voglio più tollerare nel lavoro e nella mia vita privata. Comprendo che facendo questo rischierò di entrare in conflitto, di essere percepita scomoda e magari di non essere gradita ma, allo stesso tempo, sono consapevole che può essere un percorso che apre le porte ad altre persone per avere quella stessa voglia di mettersi in gioco, per dire che vale la pena lottare, esporsi e dire le cose con la propria voce. Non penso di esser arrivata, mi sento molto in cammino e ho attorno a me tante donne che sono degli esempi positivi e che voglio seguire perché penso che essere donne richieda una grande dose di coraggio.
“Call My Agent” esplora il mondo degli agenti e il loro rapporto con gli attori. Trovi delle somiglianze tra la tua agente e quelle rappresentate nella serie?
La mia agente è molto particolare e non credo ci sia un personaggio della serie che possa assomigliare a Donatella. Sicuramente quello che riconosco in lei e nei personaggi della CMA è un amore viscerale per il lavoro, che ti porta a lavorare senza sabati, domeniche o giorni e notti. È un aspetto positivo, ma che ha anche dei lati negativi perché c’è un’abnegazione tale nei confronti del lavoro che si rischia di cancellare la propria vita privata e, ascoltando anche i racconti dei colleghi, mi rendo conto che il lavoro dell’agente ti assorbe tantissimo e richiede tanto amore per gli attori, cinema e per la televisione da poter reggere tutto lo stress di una passione vera e profonda. Questa dedizione la riconosco in Donatella e in tutti gli agenti della CMA.
Il teatro ha fatto e continua a far parte della tua carriera da attrice prima di “Call my agent”. Quali aspetti ami del palcoscenico?
Amo la dimensione della condivisione live, il fatto che accada qui e ora e insieme al pubblico, la ritualità, il darsi uno spazio e un tempo per stare insieme e vivere insieme l’esperienza di farsi da specchio. Gli attori e la regia propongono e pongono davanti al pubblico uno specchio possibile di umanità che quanto più riesce a essere profondo e approfondito nella fase di prove tanto più riesce a restituire una verità nel momento in cui si va in scena e avviene il confronto con il pubblico, assolvendo la propria funzione, dando a chi sta lì la possibilità di avere una posizione attiva, di essere mosso, di provare emozioni contrastanti, di riconoscersi o di odiare ciò che vede e di tornare a casa e dire ‘forse quel personaggio sono io però non voglio esserlo, lo odio, lo detesto’. Del teatro amo l’aspetto della ritualità, della condivisione, di uscire da uno spettacolo teatrale con qualche domanda in più sulla propria vita e sulla propria umanità e su quello che stiamo vivendo storicamente come società.
Secondo te, in un attore si percepisce l’impronta teatrale?
Penso proprio di sì. Ad esempio tutta la squadra di “Call My Agent” viene dal teatro e l’abbiamo respirato sul set perché abbiamo lavorato come una compagnia. Abbiamo provato persino al bar, per riflettere, per ragionare, per condividere dei pensieri sui personaggi e sulle linee delle relazioni che andavamo a raccontare. Dopo le condividevamo con il regista, Luca Ribuoli, ed è sempre stato molto aperto alle proposte. Ha formato lui questa squadra e probabilmente aveva questa voglia di unire delle persone con un’indipendenza e un’autonomia nella creazione. Credo che questa sia proprio una caratteristica che il teatro ti lascia e che si vede nel lavoro che facciamo.
Hai mai sofferto la poca visibilità del teatro?
Direi di sì. Una cosa che mi fa riflettere riguarda ciò che mi sta accedendo. Quando si fa una serie tv o un film che ti lancia o ti mette in una condizione in cui vieni conosciuto, spesso cominciano a esserci commenti del tipo: “Wow! È nata una stella!”. In realtà non è così, è proprio grazie a tutto quel percorso, quel palco, quelle ore di studio e di lavoro che tanti artisti fanno, nell’ombra e a teatro, che si riescono a realizzare buone interpretazioni in prodotti più noti al cinema o in televisione. Mi fa un po’ arrabbiare il fatto che il riconoscimento arrivi soltanto nel momento in cui magari fai un progetto che è mainstream, come se fosse frutto della fortuna di una mattina. Credo che sia nocivo anche per quello che trasmettiamo ai giovani di ciò che significa raggiungere il successo.
Come si arriva al successo secondo te?
Il successo è la cima di una montagna e per scalarla c’è bisogno di lavoro, di fatica, di dedizione, di amore, di fallimenti, di rimettersi in piedi per ricominciare a lavorare e di mettersi in discussione. Penso sia importante raccontare questo e mi piacerebbe tanto da un lato che il teatro e gli attori teatrali potessero avere più spazio nei casting e dall’altro che i casting director abbiano anche la voglia di andare a vedere e a scoprire nei teatri i tanti artisti che ci sono nelle varie città in cui operano. I talenti ci sono, conosco una marea di attori e di attrici straordinari, che continuano a lavorare nell’ombra, con delle retribuzioni minime. Non dico che la responsabilità sia tutta del sistema, però mi piacerebbe che il mondo del cinema e della televisione avessero maggiore riguardo e attenzione nei confronti degli artisti che provengono dal teatro perché possiede una miniera di tesori al suo interno.
Cosa faresti per dare nuova forza al teatro?
Secondo me ogni artista si deve prendere la responsabilità di non svalutarsi e di svendersi meno. Se lo facessimo tutti si potrebbe mettere in moto un meccanismo più virtuoso, cominciando dal non accettare più di lavorare a certe condizioni economiche o di accontentarsi della visibilità di qualche teatro pur essendo pagato una miseria. Dovremmo lavorare su questo, sul lottare per chiedere quello che è giusto invece che soccombere sempre per paura di non essere chiamati mai. Questo è soltanto un aspetto che mi viene in mente, ma la situazione è troppo complessa per analizzarla adesso. Credo sia importante fare riconoscere il proprio valore, studiare di più, rendersi unici e insostituibili.
Immaginandoti un faccia a faccia tra Lea e Sara. Che consiglio lavorativo darebbe a Sara?
Credo che le suggerirebbe di avere il coraggio di essere se stessa, di non avere paura di fare delle scelte che possano apparire controcorrente, in ogni ambito del suo lavoro, dagli eventi pubblici a come si presenta a un provino e al lavoro che farà sul set come artista, di fidarsi del suo intuito e le direbbe di costruire concretamente il futuro che vorrebbe e con coraggio.
Se potessi rubare un ruolo a una o un tuo collega quale sceglieresti?
Avrei voluto recitare in “Kill Bill” e dire a Uma Thurman: “Senti, scusami, l’ultimo capitolo lo faccio io!” (ride ndr.).
Se fossi una giornalista che domanda faresti a Sara?
Chiederei che consiglio darei a una giovane attrice che decide di fare questo lavoro. Risponderei di non permettere a nessuno di essere critico rispetto al tuo talento, di non trovare scuse, di smettere di lamentarsi e di lavorare sodo.
Questo portale si intitola “La voce dello schermo”. Cosa significa per te ascoltare la voce dello schermo?
È l’occasione di guardarsi più approfonditamente rispetto a come lo facciamo nella vita di tutti i giorni. Penso che quando scegliamo di guardare un film o una serie abbiamo voglia di scomodarci e, per me, la voce dello schermo è questo: scomodarmi.
Di Francesco Sciortino