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Lun. Nov 25th, 2024

Intervista ad Andrea Bruschi: “Su Netflix diviso tra il Duca Marchisio ne ‘La legge di Lidia Poët 2’ e Salvatore Tadini ne ‘L’Imperatrice 2’” L’attore, musicista e cantante si racconta su "La voce dello schermo" parlando dei suoi ruoli nelle due serie di Netflix e di altri aspetti della propria carriera.

Nov 25, 2024
Foto di Gianluca Moro

Il mese delle serie tv di Netflix è stato caratterizzato da due seconde stagioni di prodotti interessanti: la prima è indubbiamente “La legge di Lidia Poët”, la seconda “L’Imperatrice”. Su “La voce dello schermo” abbiamo avuto la possibilità di intervistare Andrea Bruschi, new entry in entrambe le serie. L’attore, che ha fatto parte di prodotti importantissimi come “Ferrari”, “Lamborghini” e tantissimi altri del cinema italiano e internazionale, ha raccontato cosa abbia significato per lui dividersi, durante questo mese, tra il Duca Marchisio nella seconda stagione de “La legge di Lidia Poët” e Salvatore Tadini ne “L’imperatrice 2”. Inoltre, Andrea ha ripercorso le tappe fondamentali della propria carriera da attore, durante la quale è stato diretto da registi come Michael Mann, Peter Greeneway, Marco Tullio Giordana, Bobby Moresco e ha ricordato l’importanza che anche la musica ha nella propria vita, essendo anche il musicista e cantante Marti. A voi…

Foto di Silvia Menegon

Salve Andrea, benvenuto su “La voce dello schermo”. Ti stiamo vedendo nella seconda stagione de “La legge di Lidia Poët”. Come ti sei avvicinato a questa serie?

Salve a tutti. Grazie per il caloroso benvenuto. Come direbbe il mio personaggio, il Duca Marchisio, “sono davvero lieto di far parte di questo mondo affascinante”, quello di Lidia Poët. Ho seguito con grande interesse la prima stagione della serie, che avevo trovato molto coinvolgente; quindi, quando mi è stata offerta l’opportunità di unirmi al cast per la seconda stagione, sono stato entusiasta.

Quali sono state le sensazioni dell’entrare in una serie già collaudata come questa?

Entrare in una serie già consolidata è sempre una sfida, ma anche una grande opportunità. Il lavoro svolto dalla produzione, dal cast e dalla regia nella prima stagione ha creato un mondo ben definito, ricco di dettagli storici e di personaggi complessi. L’idea di aggiungere un nuovo tassello a questo puzzle, di contribuire a una storia che già aveva trovato un suo linguaggio e un suo pubblico, mi ha stimolato molto.

Com’è stato viaggiare indietro nel tempo?

Devo ammettere che sono un grande appassionato della storia e dei costumi del periodo tra l’800 e il 900, quindi calarmi in quella realtà storica è stato per me un piacere immenso. Le atmosfere, le dinamiche sociali, le sfide di quel tempo… Tutto mi ha affascinato e mi ha permesso di immergermi completamente nel personaggio e nelle sue contraddizioni. In sostanza, è stata un’esperienza stimolante e gratificante, che mi ha dato la possibilità di confrontarmi con un progetto di grande qualità e di portare il mio contributo in una storia così ricca di significato e spunti di riflessione.

Quali corde ti ha permesso di toccare artisticamente il Duca Alfonso Marchisio?

Interpretare il Duca Alfonso Marchisio è stato davvero un viaggio appagante dal punto di vista artistico. È stato un processo lungo e affascinante per trovare la giusta “voce” e “corpo” del personaggio, e ogni passo mi ha permesso di esplorare un periodo storico per me molto affascinante. Ho iniziato con una ricerca approfondita sul periodo storico e, in particolare, sull’atteggiamento e la postura degli uomini di fine Ottocento. Per me è stato fondamentale capire come si muovevano, come si comportavano, e come la loro fisicità fosse influenzata dalla società dell’epoca. Ho cercato fotografie d’epoca, in particolare quelle di uomini in divisa e della nobiltà, che ho trovato nei mercatini di Genova, in Piemonte, e anche a Porta Portese a Roma. Mi sono soffermato a studiare ogni dettaglio, per cercare di cogliere la loro eleganza e le piccole sfumature nel modo di muoversi, che per un personaggio come il Duca erano fondamentali.

Ci sono altre curiosità che riguardano le possibilità che ti ha offerto questa serie?

Oltre a quanto detto, una delle esperienze più affascinanti è stata imparare a ballare il Walzer. La produzione ha messo a disposizione due maestri di danza che ci hanno seguito per due mesi, passo dopo passo, in un’estate davvero caldissima, prima che iniziassero le riprese. Sembrava una sfida, ma è stata una delle esperienze più belle. Anche se la scena del ballo è relativamente breve, dietro c’è stato un lavoro di preparazione minuzioso che mi ha arricchito moltissimo. Grazie a quella preparazione, oggi porto con me non solo il ricordo della scena, ma anche un ‘esperienza, che è diventata una parte del mio bagaglio artistico. Questa preparazione fisica e tecnica mi ha permesso di entrare nel personaggio con maggiore profondità, perché il Duca Marchisio non è solo un uomo di potere, ma un uomo che vive in un contesto di rigore, formalità e disciplina, e tutto questo si riflette nei suoi gesti e nei suoi comportamenti. Quindi, artisticamente, è stato un percorso ricco e variegato che mi ha permesso di esplorare il personaggio sia fisicamente che emotivamente.

Perché secondo te “La legge di Lidia Poët è una serie così amata?

Credo che La legge di Lidia Poët sia una serie tanto amata perché riesce a toccare corde universali, pur essendo ambientata alla fine dell’Ottocento. Quello che la rende speciale è la sua capacità di rendere attuali dinamiche e conflitti che, seppur collocati in un contesto storico, parlano direttamente al pubblico contemporaneo. La serie affronta tematiche universali come la lotta per i diritti, la ricerca della giustizia, le disuguaglianze di genere e i conflitti interpersonali, tutti elementi che continuano a risuonare fortemente anche oggi.

Come si riesce a essere attuali raccontando fatti del passato?

Il fatto che si tratti di una storia ambientata nel passato non significa che i suoi temi siano relegati a un altro tempo: la serie riesce a mantenere intatto il sapore storico, senza rinunciare alla modernità nei temi e nei conflitti che i personaggi vivono. Le difficoltà e le sfide che affrontano sono assolutamente riconoscibili e universali, e questo crea una connessione emotiva immediata con lo spettatore, soprattutto con i più giovani. L’abilità della serie sta proprio nel non snaturare il periodo in cui si svolgono i fatti, ma nel saper intrecciare le caratteristiche della società dell’epoca con una narrazione che resta fresca, attuale e capace di stimolare riflessioni. In fondo, le dinamiche dell’umano sono sempre le stesse: la ricerca di una propria voce, il contrasto tra i desideri individuali e le aspettative sociali, la lotta per l’emancipazione e per il riconoscimento. La serie riesce magnificamente a catapultarti in quel periodo, facendoti sentire parte di quella storia, pur senza farci mai dimenticare che alla base di tutto c’è una questione profondamente attuale. Credo che sia proprio questa capacità di unire passato e presente che la rende così amata e che fa sì che ogni episodio parli al cuore degli spettatori, indipendentemente dalla loro età o dal contesto storico in cui vivono.

Rimaniamo sempre su Netflix, ma spostiamoci di set. Dal 22 novembre ti stiamo vedendo anche nella seconda stagione de “L’Imperatrice”. Cosa ti ha colpito di Salvatore Tadini?

Interpretare Salvatore Tadini è stata un’esperienza molto profonda e mi ha permesso di esplorare diverse sfumature emotive e fisiche che mi hanno coinvolto moltissimo. Per avvicinarmi al personaggio, ho iniziato partendo da un aspetto molto specifico della sua storia: la ferita che ha subito in battaglia. Salvatore è un ex ufficiale dell’esercito austriaco, e questa ferita alla gamba, che lo ha segnato per sempre, è stata un elemento fondamentale per capire chi fosse e come si relazionasse con il mondo.

Come si comprende un dolore che prova un personaggio?

Immaginare quella battaglia e il dolore fisico e psicologico che Salvatore ha dovuto affrontare mi ha aiutato a entrare in un processo di comprensione profonda del personaggio. La sua condizione lo costringe a ritirarsi dalla vita militare, ma la sua frustrazione e il suo senso di inadeguatezza si riflettono anche nella sua vita familiare, che lo delude. I suoi figli, infatti, in un certo senso tradiscono la sua fedeltà all’imperatore e alle sue convinzioni, creando ulteriori conflitti interiori. Questo aspetto di Salvatore – il contrasto tra il suo passato eroico e la sua vita presente insoddisfacente – mi ha affascinato molto.

Come sei entrato definitivamente in Salvatore Tadini?

Per entrare completamente nel suo personaggio, ho dovuto anche lavorare sulla parte fisica. Ho immaginato come sarebbe stato camminare con una gamba ferita, e ho passato molto tempo a zoppicare con un bastone, prima in casa e poi anche passeggiando per le strade di Genova. Ho capito di essere arrivato a una buona interpretazione quando, in situazioni quotidiane come stare in fila, le persone mi lasciavano il posto o mi offrivano aiuto per scendere dall’autobus o salire sul metro. È stato un segno che la mia ricerca della postura giusta e della fisicità del personaggio era riuscita a essere credibile e autentica.
Era un modo per comprendere come il corpo di Salvatore reagisse a questa ferita cronica e, allo stesso tempo, come le persone lo percepissero, vedendolo come un uomo segnato dalla battaglia e dalla vita. Questo esercizio mi ha dato una chiave di lettura importante per il personaggio, perché mi ha permesso di integrarlo fisicamente nella sua psicologia e nelle sue emozioni.

Quali sono, quindi, gli aspetti che hai amato di questa esperienza?

Quello che ho amato di questo progetto, oltre alla complessità del personaggio di Salvatore, è anche il contesto storico e la bellezza delle ambientazioni, che contribuiscono a rendere ancora più potente il racconto. The Empress è un progetto che esplora il conflitto tra ambizione, lealtà e disillusione, ed è stato incredibile poter dare voce a un personaggio che incarna tutti questi temi, portandoli in scena con la mia interpretazione.

Che differenze hai notato tra serialità italiana ed estera facendone parte?

Sia in Italia che all’estero, ho trovato progetti molto ambiziosi, con una grande attenzione ai dettagli, che fanno sì che ogni storia sia raccontata con passione e precisione. Un aspetto che mi ha colpito, e che credo sia una delle forze della serialità contemporanea, è il fatto che molte produzioni italiane, pur utilizzando la nostra lingua, abbiano ottenuto un successo internazionale straordinario. Questo dimostra che il pubblico di tutto il mondo è pronto a immergersi in storie coinvolgenti, anche quando non sono recitate in inglese, ma nella lingua originale. È segno che la qualità della narrazione e l’autenticità dei personaggi vanno oltre la lingua e trovano una connessione universale.

Ci sono degli aneddoti particolari che ti hanno fatto capire la grandezza dei progetti di cui hai fatto parte?

Un’esperienza che mi ha colpito particolarmente riguarda il mio primo giorno sul set de “L’Imperatrice” a Praga. Ricordo che mi hanno condotto al reparto costumi per provare i magnifici abiti d’epoca, e mi sono trovato dentro a un enorme magazzino pieno di costumi, parrucche, cappelli, scarpe – una vera e propria meraviglia. Era come entrare in un cabinet of curiosities, un luogo che ti trasportava immediatamente in un altro tempo e in un altro mondo. Ogni dettaglio, ogni elemento era pensato con una cura incredibile, che mi ha aiutato non solo a prepararmi fisicamente, ma anche ad entrare nel personaggio e nell’epoca che dovevo interpretare.

Credi che La legge di Lidia Poët si possa definire una serie internazionale?

Assolutamente sì, ho notato la stessa attenzione alla cura dei dettagli anche sul set di La legge di Lidia Poët, dove la scenografia, gli oggetti e, in particolare, i costumi, erano davvero straordinari. Ogni elemento contribuiva a ricreare un mondo autentico, che non solo serviva alla narrazione, ma aiutava anche me come attore a immergermi completamente nella storia. Questa grande attenzione ai particolari, alla storia e alla cultura che i costumi e le scenografie evocano, è qualcosa che accomuna queste due produzioni, sia italiane che internazionali. E credo che sia proprio questa cura e questo impegno che rendono queste serie così speciali e coinvolgenti per il pubblico di tutto il mondo.

Se potessi tracciare le tappe fondamentali della tua carriera, quali sceglieresti?

Le tappe fondamentali della mia carriera è difficile tracciarle con precisione perché il mio percorso è stato un viaggio in continua evoluzione, come una sorta di mosaico che si compone pezzo dopo pezzo. Ogni singolo passo è stato determinante, perché senza uno di essi non sarei dove sono ora. Ci sono momenti che, però, hanno segnato profondamente il mio cammino sia come attore che come musicista. Se dovessi evidenziare alcune di queste tappe, sicuramente lavorare con Michael Mann è stato un momento cardine. Mann non è solo un regista che ammiro profondamente, è una figura che considero un vero e proprio “padre” del cinema. Collaborare con lui è stato come entrare dentro un mondo che da ragazzino, quando mi approcciavo al Cinema avevo solo osservato da lontano, con occhi pieni di meraviglia. La sua cura per i dettagli, la sua visione artistica, la sua capacità di scavare in profondità nelle storie e nei personaggi sono stati un’enorme fonte di ispirazione. È un’esperienza che mi ha arricchito non solo professionalmente, ma anche a livello umano.

Non c’è soltanto “Ferrari” di Michael Mann tra i set di grande spessore di cui hai fatto parte…

Proprio così. Un’altra tappa fondamentale è stata l’esperienza di recitare in “Lamborghini”. Interpretare Franco Scaglione, il designer di una macchina che fa parte della storia, in un film che racconta una figura iconica come Ferruccio Lamborghini, è stato per me un grande onore. Collaborare con Bobby Moresco, che ha scritto e diretto la sceneggiatura, è stato altrettanto significativo. Avevo già avuto l’opportunità di lavorare con lui nel thriller poliziesco Bent, accanto a Karl Urban e Andy Garcia, e avevo potuto apprezzare il suo stile narrativo autentico e profondo. Tornare a collaborare insieme è stato come immergersi in un corso intensivo sull’essenza della semplicità e dell’integrità nel mondo del cinema.

Nella tua vita non c’è soltanto la recitazione, essendo anche leader del gruppo Marti.…

Esattamente. Parallelamente al mio percorso nel mondo del cinema, la musica è sempre stata una parte essenziale della mia vita. Realizzare un disco con un’intera orchestra ad Amsterdam, prodotto da Bob Rose, è stato un sogno divenuto realtà. Registrare negli studi Wisseloord, dove sono stati incisi alcuni degli album che hanno segnato la mia formazione musicale, è stato come camminare in un tempio sacro della musica. Bob Rose mi ha aiutato a portare la mia musica su un piano internazionale, e collaborare con lui ha rappresentato un vero punto di svolta. Per me, quegli incontri e quelle collaborazioni sono stati fondamentali per crescere non solo come artista, ma anche come persona.

Quale pensi sia il fil rouge che colleghi la tua carriera nella musica a quella della recitazione?

Quello che forse lega tutte queste esperienze è il fatto che ogni tappa è stata guidata dall’incontro con persone che sono state, per me, dei veri punti di riferimento. Ho avuto la fortuna di lavorare con registi che ammiravo da sempre, come Greenaway, Joe Wright , Bobby Moresco, Ridley Scott, Michael Mann e, in Italia, Marco Tullio Giordana e tanti altri. Con ognuno di loro, ho avuto l’opportunità di imparare qualcosa di nuovo, di entrare nel mondo di chi, fino a quel momento, era stato un mito per me. Alla fine, se guardo indietro, vedo la mia carriera come un viaggio in crescendo, un’esplorazione continua. Ci sono stati continenti da scoprire, che fossero nel mondo del cinema o della musica. Non mi fermo troppo a guardare indietro, però; preferisco pensare che ci sia ancora tanto da esplorare. Ogni esperienza, ogni persona incontrata lungo il cammino, ha lasciato un segno e ha contribuito a rendermi l’artista e la persona che sono oggi.

Cosa ti trasmette la musica e cosa la recitazione?

Per me la musica e la recitazione sono due forme di espressione che si intrecciano profondamente e, in un certo senso, non sono nemmeno separabili. Le vedo come due facce della stessa medaglia: entrambe sono modi di raccontare storie, ma con linguaggi diversi, e sono un viaggio che fai con tutto te stesso. La musica mi trasmette un’emozione che va direttamente all’anima, senza parole, solo suoni e vibrazioni, mentre la recitazione ti permette di trasformarti in qualcun altro, di entrare nella pelle di un personaggio e fare tua una storia. Ma entrambi i mondi hanno questa capacità magica di toccare l’altro da sé, di coinvolgere, di emozionare, in un modo che è unico per ogni artista.
Come cantautore, la musica è come se fosse un film che scrivo io stesso. Quando scrivo una canzone, descrivo un intero mondo, una visione, un’emozione che voglio trasmettere. E la stessa cosa succede quando interpreto un personaggio come attore. Anche se il testo o la storia non sono miei, c’è un processo che devo fare mio: devo entrare in quel mondo, capire le sfumature del personaggio e, in un certo senso, riscrivere quella storia con il mio corpo, la mia voce, le mie emozioni. Così come un musicista crea il suo mondo con le note, un attore crea il proprio con ogni parola, ogni gesto. La bellezza della recitazione, come della musica, sta nel fatto che, anche se seguono regole diverse, entrambe ti spingono a raccontare qualcosa di profondo, a toccare quella parte di te che è universale e che ti permette di connetterti con chi ti sta guardando o ascoltando. In entrambi i casi, la sfida è portare l’altro nel tuo mondo, farlo sentire parte di ciò che stai vivendo, anche se in modo diverso: nella musica attraverso la melodia, nel teatro o nel cinema attraverso il corpo e le parole.

Se fossi un giornalista che domanda faresti ad Andrea?

Gli chiederei: “Nel tuo lavoro c’è un ruolo o una canzone che senti particolarmente legata a un periodo della tua vita?”
La risposta, senza dubbio, è “Heroes” di David Bowie. Ricordo perfettamente il momento in cui ho visto il video per la prima volta, nel 1977, quando ero ancora un bambino. Ero seduto nel salotto di casa, con la TV accesa, quando improvvisamente sullo schermo appare una figura in un giubbotto di pelle, avvolta in un fascio di luce che lo illuminava da dietro. E poi, con quella strana e magnetica aria incantatrice, inizia a cantare Heroes. Quel momento è impresso nella mia memoria per sempre.
Il suono di quelle chitarre, suonate da Robert Fripp, ma soprattutto la voce di Bowie – quella sua interpretazione così distante, quasi drammatica –mi colpirono profondamente. Non avevo idea all’epoca del tipo di lavoro che Bowie avesse fatto sulla sua voce, sul suo corpo, sull’intero processo artistico per riuscire a concentrarvi così tanto in tre minuti di interpretazione. Ma ciò che percepii, inconsciamente, fu il messaggio di qualcosa di straordinario, di alieno rispetto a tutto ciò che conoscevo fino a quel momento. Cambiò completamente la mia visione del mondo e quella canzone, quell’artista e quella performance sono diventate per me un punto di riferimento. Hanno segnato un confine tra il mondo che conoscevo e quello che, attraverso la musica e l’arte, avrei imparato a esplorare. È stato un momento di apertura, un’apertura verso l’infinito, un’iniziazione a qualcosa di molto più grande e profondo. Un’esperienza che, ancora oggi, mi accompagna nel mio percorso sia musicale che attoriale.

Questo portale si intitola “La voce dello schermo”. Cosa significa per te ascoltare la voce dello schermo?

Ascoltare la voce dello schermo, per me, è un’esperienza che ha una forza magnetica, che ti cattura immediatamente. Quella voce possiede un’immediatezza che ti proietta in un altro mondo, in un’altra realtà, che ha qualcosa di magico. Mi viene in mente, per esempio, la voce di Carlo Romano, che doppiava Nick Carter in “Supergulp”. Era una voce che non era solo quella di un personaggio, ma un vero e proprio portale che mi trasportava in un mondo fantastico. C’è un video che vi consiglio di cercare in rete, con Bruno Bozzetto e Bonvi, che raccoglie un po’ di quella magia. E poi è stato anche la voce di attori come Jerry Lewis e Fernandel nel personaggio di Don Camillo, quelle voci che hanno il potere di innescare il buon umore e di catapultarti dentro una storia che è capace di farti sorridere, di far pensare, ma anche di farti sentire parte di qualcosa di più grande, come se stessi entrando in un altro mondo attraverso quella sola voce. Per me, la voce dello schermo è davvero un portale che trasforma l’esperienza di guardare un film o una serie in qualcosa di più profondo, perché quella voce ti accompagna, ti guida e ti fa vivere una storia con una forza che va oltre l’immagine. È il ponte che collega lo spettatore alla magia del cinema, è come un invito a entrare in un mondo che ti è estraneo, ma che, grazie a quella voce, diventa improvvisamente familiare.

Di Francesco Sciortino

By lavocedelloschermo

Francesco Sciortino, giornalista pubblicista dal 2014, appassionato di serie tv, cinema e doppiaggio. In passato cofondatore della testata online “Ed è subito serial”.

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