Antonella Attili è una delle attrici più presenti, apprezzate e preparate del panorama italiano. Ha saputo, infatti, conquistare la fiducia di registi di fama mondiale, da Giuseppe Tornatore, che l’ha lanciata nel film premio Oscar “Nuovo Cinema Paradiso” facendole interpretare la madre del piccolo Totò e che ha poi rivoluto in “Stanno tutti bene” e ne “L’Uomo delle stelle”, a Margarethe von Trotta, Pupi Avati, fino ad arrivare ad Anthony Minghella ed Ettore Scola. La carriera di Antonella non si limita soltanto alla parte cinematografica, ma ha saputo percorrere più strade contemporaneamente, grazie anche a una notevole capacità di resistenza, come lei stessa racconta, che l’hanno portata a conquistare teatro, cinema e televisione. Il pubblico la ama, infatti, anche per ruoli come quello di Agnese Amato ne “Il Paradiso delle Signore”, di Marilù in “Makari” o della madre del Libanese in “Romanzo Criminale – La serie”, ruoli mai banali e che ci fanno comprendere lo spessore artistico di Antonella Attili.
Abbiamo avuto il piacere e l’onore di intervistarla su “La voce dello schermo” e, partendo dall’opera prima di Valerio Ferrara “Il Complottista”, ci ha regalato un’interessante chiacchierata riguardo le interpretazioni che ci hanno permesso di apprezzarla tra grande e piccolo schermo e palco. Ma non è tutto, l’attrice ci ha dato qualche anticipazione sull’interessante serie che presto vedremo, “Morbo K”, e su alcuni importanti aspetti della propria carriera. A voi…
Salve Antonella, benvenuta su “La voce dello schermo”. Partiamo da “Il Complottista”, film diretto da Valerio Ferrara che è stato presentato ad Alice nella città e che ha già attirato l’attenzione, dimostrandosi sin da subito un’opera prima molto accattivante. Cosa hai amato di questa esperienza?
Salve a tutti, grazie. Ho amato tanto la sceneggiatura e la storia, perché è la prima cosa che valuto in un progetto. Da lì parte tutto e il valore aggiunto lo danno gli attori che la interpreteranno. Senza un buono scritto è difficile fare un buon prodotto. Quando un ragazzo così giovane come Valerio, uscito da poco dal centro sperimentale, riesce a realizzare già prodotti notevoli come il corto da cui è stato tratto il lungometraggio, comprendi immediatamente che farai parte di un ottimo film. Ho subito avvertito che c’era qualcosa che mi apparteneva in quel personaggio nel momento in cui ho letto il soggetto. C’è sempre qualcosa all’interno dei personaggi che ti chiama, ti fa suonare dei campanellini interni e ti fa dire: “questa donna la conosco” e quando sento questo tipo di appartenenza diventa tutto molto semplice e naturale. Infine, la lavorazione è stata molto collaborativa, creativa e divertente.
Perché pensi che sia un film interessante?
È un film che hanno amato tantissimo i giovani perché ha un linguaggio che parla anche alle nuove generazioni. Mentre spesso assistiamo a un cinema stereotipato, in cui vediamo le stesse commedie, intrecci amorosi e con gli stessi attori, in questo caso temi, ambientazione e argomenti trattati rappresentavano degli elementi di novità. È una commedia insolita ed è stato molto stimolante e divertente farne parte. Inoltre, gli esordi hanno sempre qualcosa di molto fresco e urgente, trovi quel motore che dopo il primo film è sempre difficile riscontrare: la passione che muove tutto e l’urgenza di raccontare qualcosa, perché poi diventa mestiere, studio a tavolino e una cosa che può piacere a un produttore o un attore. I successivi sono veicolati da una serie di condizionamenti che quando realizzi il primo film non hai.
Quali corde ti ha permesso di toccare Susanna?
Susanna è una donna che porta avanti il peso di una famiglia che si è sfasciata senza un motivo particolare. Si vede un marito che si allontana non a causa di un’altra donna ma per via di un’ossessione nei confronti di sistemi mondiali e di concezioni che lei non può capire perché è una donna concreta. Lavora, infatti, al supermercato, ha un figlio con alcuni problemi e ha una famiglia di romani disincantati che vedono il marito come un sognatore stralunato che si immagina delle storie di spionaggio sopra i lampioni e lo trattano come se fosse un deficiente. Lei lo difende per amore, fin quando può, e di lei mi piace la resistenza, la capacità di amare al di là di quello che ha intorno, perché ricorda i tempi in cui ha conosciuto il marito e lo ha scelto. È una donna che resiste anche se poi vince la realtà, la concretezza e il fatto che è più realista e ha un compagno che non riconosce più e che vive con la testa per aria. Mi piaceva affrontare questo piccolo dramma familiare e con un elemento esterno incomprensibile per lei che si frappone tra loro due. La loro realtà non è più loro, ma vivono entrambi situazioni diverse che portano al dividersi delle strade che prima percorrevano insieme. È una commedia e c’è un perfetto equilibrio di storia plausibilissima con toni tipici del genere.
A proposito della resistenza, tu hai anche scritto che è molto importante nel tuo lavoro. In che modo?
Secondo me, la resistenza è fondamentale specialmente in tempi bui come quelli che stiamo vivendo, con valori che ci sembravano consolidati e che adesso sono messi in pericolo, con un governo a cui non importa tanto della cultura, mentre per la storia del nostro Paese dovrebbe essere centrale e dovremmo vivere di questo. Ogni anno la situazione mi sembra peggiorare sempre di più riguardo gli spazi, il valore e i fondi che si dedicano alla cultura in Italia. Credo che gli artisti abbiano la possibilità e debbano impegnarsi per proporre un immaginario diverso. In questo senso è un lavoro di resistenza, perché le strade vengono sempre ristrette, chiuse e rese impraticabili ad alcuni di noi, perché le difficoltà economiche, a causa dei fondi che mancano e che vengono destinati ad altro, rendono sempre più ardua e difficile la possibilità di progettare, di fantasticare e di proporre sempre più. Io posso soltanto contare sulla mia capacità di resistere in un mondo del genere ed è un lavoro di resistenza cercare di affinare le proprie qualità o di fare, quando puoi, qualcosa che ti distingua dagli altri.
Prossimamente ti vedremo in “Morbo K”. Cosa puoi dirci a riguardo?
Anche questa è una bellissima storia di resistenza e da onorare. La regia è di Francesco Patierno, i protagonisti sono Vincenzo Ferrera, Giacomo Giorgio, Dharma Mangia Woods e racconta la storia di un medico che durante il ’43, nel periodo in cui i nazisti fecero il Rastrellamento del ghetto, un medico del Fatebenefratelli di Roma inventò che all’interno dell’ospedale si stava diffondendo un’epidemia mortale. Con questo stratagemma riuscì a ricoverare una serie di ebrei e gli salvò la vita, perché i nazisti arrivarono, videro una situazione disastrosa, chiaramente finta, e non entrarono nell’ospedale. In questo modo si riuscirono a salvare molte vite. È tratta da una storia vera e anche in questo caso mi ha convinto la bellissima sceneggiatura, un’ambientazione d’epoca curatissima e un cast interessante, con attori che vengono dal teatro, che sono delle facce giuste per questo tipo di film e sarà un prodotto caratterizzato da una grande ricerca della verità. Interpreto un’infermiera e sono orgogliosa di far parte di questa esperienza. Credo uscirà il prossimo anno.
Attualmente sei impegnata nelle riprese della quarta stagione di “Makari”. Cosa ami di questa serie e di Marilù?
Amo la ricorrenza, il fatto di poter interpretare un personaggio in tante stagioni. Avevo già affrontato per quattro anni questo aspetto ne “Il Paradiso delle signore” e recitare in una serie longeva ti dà la possibilità di costruire dei rapporti e delle relazioni che rimangono, ti affezioni a quel personaggio come lo fanno gli spettatori e loro ti riconoscono. È come se fosse una famiglia e far parte di una serie lunga è una fortuna. La mia Marilù arriva a Makari e si sente a casa.
Se dovessi riassumere le tappe più significative della tua carriera, quale sceglieresti?
Sicuramente “Nuovo Cinema Paradiso” di Giuseppe Tornatore perché senza quel film probabilmente non avrei fatto cinema e sarei stata un’attrice di teatro, poi dico l’incontro con Ettore Scola e “Il Paradiso delle signore”, perché è stata una tappa che mi ha dato grande popolarità. La mia carriera mi ha dato grandi opportunità, avendo lavorato con grandissimi registi da Pupi Avati a Margarethe von Trotta, Anthony Minghella ma a un certo punto della mia vita mi ero resa conto che, nonostante la stima di molti grandi personaggi del cinema, non avevo tantissima popolarità e nessuno legava il mio nome alla mia faccia. “Il Paradiso delle Signore” è stata una svolta importante per questo motivo per me. Inoltre, sono molto legata alle opere prime di cui ho fatto parte e di cui vado molto fiera, da “Cuori Puri” di Roberto De Paolis al “Complottista” di Valerio Ferrara.
Quanto è importante la popolarità per un’attrice?
È molto importante. In passato, per via della timidezza, credevo non fosse fondamentale e che mi bastava fare il mio lavoro, invece non è così. Credo che il lavoro debba essere riconosciuto per esistere e soprattutto per poter scegliere dei progetti che ti interessino. Avere un minimo di popolarità significa avere più credito al di là del talento. Essere un nome riconosciuto, con la gente che ti ama, ti apre qualche strada in più ed è importante, anche se prima avrei dato una risposta diversa.
Perché secondo te il teatro non dà abbastanza popolarità?
Perché non fa parte della nostra cultura come dovrebbe essere e com’è nelle altre parti del mondo, come in Inghilterra e in America. In Inghilterra magari mangiano un panino e vanno a teatro, mentre noi preferiamo andare a mangiare una pizza. Bisognerebbe ricominciare dalle scuole a fruire di questo mondo e la differenza potrebbe farla l’inserire il teatro come materia. Inoltre è veicolato male perché la gente è poco preparata a riguardo e dovrebbe fare un percorso per crearsi gli strumenti per assistere a tutti i tipi di spettacoli, cominciando da quelli più fruibili per poi concentrarsi su altri più impegnativi, come si fa in letteratura. Per noi attori è una formazione necessaria e importantissima. Gli attori di teatro al cinema si riconoscono subito: non sussurrano, non gridano, non bisbigliano ma parlano e capisci tutto. Si percepisce la differenza e un fonico potrebbe parlare per ore a riguardo. Sui set spesso mi capita di vedere fonici disperati per questo motivo. La recitazione non è parlare come a casa, è il massimo dell’artificio per sembrare naturali ma è comunque una tecnica che si deve avere.
Quali sono gli aspetti che ti fanno amare la recitazione?
La possibilità di essere “Uno, nessuno e centomila”, come diceva Pirandello e perché attraverso i personaggi che interpreti e le ricerche che fai, e sono una persona che ne fa tante per documentarsi e approfondire dei caratteri, mi dà la possibilità di sperimentare mille vite, come accade nella letteratura. Chi legge è più ricco e grazie alla lettura diventi anche tu più raffinato nelle interpretazioni e capace di cogliere gli elementi fondamentali di un personaggio.
Se fossi una giornalista che domanda faresti ad Antonella?
Forse le chiederei come si sta emotivamente dall’altra parte, perché magari si pensa erroneamente che fare questo mestiere sia tutto scintillante, pieno di soddisfazioni, lustrini e di tappeti rossi. Invece è un lavoro che ti mette emotivamente a dura prova, ti espone continuamente a un giudizio e ti ritrovi su un’onda che ti porta in alto e in basso. Queste oscillazioni emotive fanno malissimo a degli animi sensibili e sono estremamente logoranti a lungo andare, anche perché raramente si ha una carriera di soli alti per cui ti muovi in tante zone d’ombra e di resistenza psicologica che possono esser estremamente provanti.
Quando hai imparato a resistere all’urto delle onde?
Con il tempo e con l’esperienza, più prendi le onde anomale più ti rafforzi. Ma è un aspetto soggettivo, ho visto gente che non è riuscita a sopportare questo peso, l’ho vista soffrire, perdersi e ammalarsi. È un mestiere di cui non si valuta spesso l’altro lato della medaglia, che può essere molto drammatico in alcuni casi.
Questo portale si intitola “La voce dello schermo”. Cosa significa per te ascoltare la voce dello schermo?
Significa vivere un rituale collettivo. Non credo si possa prescindere dalla sala per guardare il cinema e tutto quello che vedo dal tablet lo dimentico dopo due minuti. Quando lo guardo, se lo vivo insieme agli altri, me lo ricordo e diventa un rituale collettivo. La voce dello schermo è una voce in sala, al buio, come un rituale che si ripete e un qualcosa per me di necessario e che diventa un’esperienza quando è memorabile e te la porti dietro nel tempo.
Di Francesco Sciortino