Uno dei personaggi più singolari di “Rocco Schiavone” è sicuramente lo strampalato Domenico D’Intino, che offre sempre tanti spunti per farci sorridere e che è interpretato magistralmente da Christian Ginepro. Con grande piacere, abbiamo intervistato su “La voce dello schermo” proprio Christian, che ha parlato del suo personaggio e degli aspetti che rendono unica la serie prodotta da Cross Productions, diretta da Simone Spada e con protagonista Marco Giallini. L’attore ha, inoltre, ricordato una delle scene più iconiche di “Rocco Schiavone”, che gli ha permesso di mostrare anche una parte drammatica di D’Intino e ci ha confidato gli incontri e i progetti che hanno segnato positivamente la propria carriera: dai lavori con maestri del teatro a “Boris”, “Leopardi – il poeta dell’infinito” fino ad arrivare al film di Greta Scarano, “La vita da grandi”, in uscita il 3 aprile sul grande schermo. A voi…
Salve Christian. Benvenuto su “La voce dello schermo”. Ti stiamo vedendo nei nuovi episodi di “Rocco Schiavone”. Cosa ami della serie?
Salve a tutti, grazie. Mi ritengo particolarmente fortunato perché sarei potuto capitare in una serie con una qualità molto più bassa, invece “Rocco Schiavone” non è un prodotto di Serie A ma di Champions League. È una serie straordinaria dal punto di vista della fotografia, della scrittura, della colonna sonora e mi ha offerto la possibilità di lavorare con un attore come Marco Giallini. Approdare a un prodotto del genere è anche una questione di fortuna. Dico sempre che lavoro il doppio rispetto a gente che ha il doppio del mio talento e la metà rispetto a gente che ne ha la metà. Riuscire s lavorare nel nostro Paese è considerato quasi un miracolo e avere la fortuna di lavorare in una serie come “Rocco Schiavone” è come aver fatto bingo. “Ho fatto bingo, Dottò!” (ride ndr.).
Quali sono invece gli aspetti che ti affascinano di D’Intino?
D’Intino è un personaggio che mi dà gioie e dolori, è totalmente diverso da me perché vado molto di corsa tutto il giorno e ho voluto provare a costruire un personaggio che è esattamente il mio contrario. È molto amato dal pubblico perché è disegnato su un’altra partitura rispetto a Rocco Schiavone e fa parte di una tipologia di personaggio che ognuno di noi incontra nella propria quotidianità: una persona che quando non è presente c’è bisogno di lei e quando invece è presente non c’è bisogno che lo sia. Persone di questo tipo si trovano ovunque, dagli uffici alle scuole, e la gente si è innamorata del candore di questo personaggio e fa un po’ da contraltare alle situazioni che incontra. Non sa niente dei casi, non ha capito, viaggia sulla superficie, poche cose lo toccano. Le persone gli vogliono bene per questi motivi e si riconoscono perché rappresenta il lato non perfezionista della società.
Lucio Corsi canta “Volevo Essere un duro”. Secondo te, D’Intino voleva essere un duro?
Il matto non sa di essere matto e D’Intino non sa di essere D’Intino. Non ha coscienza di sé e non pensa di essere un debole. Andava in giro, durante le prime stagioni, con una pistola lunga come un braccio e crede di essere un duro ma poi, in proporzione agli altri, è diverso. D’Intino non si fa questa domanda. Crede di essere duro quando c’è bisogno. È un po’ come Igor in “Frankenstein Junior”, che è convinto di essere bellissimo, ma non si pone il problema, lo fanno gli altri.
D’Intino offre spunti di comicità ma ha saputo regalare una parte straziante, mi riferisco ovviamente al momento che riguarda lo sparo a Rocco Schiavone…
Sì, è la parte che ha fatto innamorare gli spettatori di D’Intino. Quella scena era stata scritta in maniera comica, non era così struggente. Poi ci siamo guardati in faccia con Marco Giallini e il registra Simone Spada e abbiamo detto: “Questa è una scena drammatica, non dobbiamo far ridere”. Nello script di Antonio Manzini era presente questo aspetto e noi dovevamo soltanto stare attenti a non fare un’altra scena brillante. Dopo quella puntata mi hanno scritto centinaia di persone dicendomi: “Tranquillo, io non te la levo l’amicizia”. È una scena che ha fatto la sua piccola storia in “Rocco Schiavone” avvicinando tanto il pubblico al nucleo di un personaggio che vedevano soltanto comico, ma che invece ci ha portato più in profondità. Siamo felicissimi di aver raggiunto quell’obiettivo.
Secondo te, in che modo si crea uno sguardo differente nei suoi confronti?
D’Intino è un personaggio che se non si guarda in modo tridimensionale quello che è il suo carattere, diventa semplicemente una macchietta che dice cavolate e potrebbe anche risultare insopportabile, come lo vede Rocco. Quando si osserva il personaggio in scene come questa si fa un passo indietro e lo fa anche Schiavone, dal momento che si crea un rapporto di odio e amore, mentre prima si trattava soltanto di mal sopportazione. A volte al supermercato troviamo la cassiera che ci sembra antipatica ma non ci chiediamo il perché. Magari ha una vita complicata, è in difficoltà, non sopporta la maleducazione delle persone. D’Intino vive un po’ la stessa cosa da un altro punto di vista: gli scivola tutto addosso, ma non è detto che sia un male. Tuttavia, quando poi arrivano scene come quella, comprendi che dentro c’è un essere umano che è sempre al posto e al momento sbagliato, parla quando non dovrebbe, ma dietro c’è anche un uomo solo. Quando sospendi il giudizio e cominci a vedere, invece di allontanarti, ti avvicini a lui.
A volte a voi attori capita di sentirvi quasi imprigionati all’interno di un ruolo. Ti è successo con D’Intino?
Sono un attore riconoscibile ma non riconosciuto. Quando la gente mi ferma per strada non ferma Christian Ginepro, ferma D’Intino, è come se fossimo a Disneyland e le persone vedessero Topolino e non chi c’è sotto. Tuttavia, dalla scena dello sparo, la gente ha cominciato a vedere chi sia Christian Ginepro. Credo che sia un passo importante e ci dovrebbe essere sempre un livello di scrittura in grado di mostrare sia la parte comica che drammatica dei personaggi. Il coraggio del regista e dello sceneggiatore deve essere indirizzato verso questa direzione. In America è sicuramente più facile trovare personaggi così complessi, in Italia a volte è più difficile, ma se hai come autore Antonio Manzini diventa tutto più facile.
Riassumendo le tappe fondamentali della tua carriera, quali sceglieresti?
La prima è stata quando, a ventiquattro anni, i miei genitori mi hanno detto: “trasferisciti a Roma”, ed è stato importante avere una famiglia alle spalle che mi spronasse e mi dicesse: “dai, provaci, altrimenti vivrai di rimpianti” e senza quello non ci sarebbe stata nessuna carriera. Poi, ripercorrendo le tappe, mi vengono in mente dei nomi di persone che hanno visto oltre e mi hanno dato la possibilità di fare dei salti, come Gino Landi, Pietro Garinei, Gianluca Guidi, Gigi Proietti, Ludovico Bessegato, Federico Bellone e Alberto Negrin. Ci sono spettacoli che porto nel cuore come “Cabaret”, “Vacanze Romane”, “La fabbrica di Cioccolato” e prodotti televisivi come “Gino Bartali – L’intramontabile” e “Il Candidato – Zucca Presidente”, quest’ultimo con Ludovico Bessegato che mi ha segnalato alla Cross Productions quando non riuscivano a trovare D’Intino perché l’idea iniziale era di rendere il personaggio molto più giovane di me. Infine, ovviamente cito “Boris” e “Rocco Schiavone”. A noi attori il vento ci porta a scegliere i ruoli e ci sono momenti in cui si è più fortunati e altri meno. Decide il fato di farti cascare all’interno di un prodotto di qualità come “Rocco Schiavone”.
Il teatro è un altro mondo che ti riguarda, hai curato anche la regia di diversi spettacoli. Perché è fondamentale per te?
Quando si apre il sipario non puoi più nasconderti: o sei bravo e la gente capisce che non lo sia. Alcuni musical recenti lo dimostrano. Il fatto che sia l’attore sia lo spettatore respirino le stesse particelle d’ossigeno è un aspetto che la macchina da presa non può restituire e in tv e al cinema è tutto un po’ traslato, come avviene in “Rocco Schiavone”, che sta andando in onda adesso nonostante sia stato girato un anno fa. Il teatro offre un altro tipo di recitazione, è un rito che si celebra in quel momento ed è sacro.
Dove ti vedremo prossimamente?
Sarò al cinema in un film che, secondo me, avrà un grandissimo successo, perché il trailer sta già facendo piangere la gente dalla commozione: “La vita da grandi”, diretto da Greta Scarano e con una straordinaria Matilda De Angelis, che adoro come attrice e come persona.
Com’è stato essere diretto da Greta Scarano?
È stato tosto perché quando si viene diretti da un attore è sempre più impegnativo. Di recente mi è capitato anche con Sergio Rubini in “Leopardi – il poeta dell’infinito”. Un regista vuole che la scena sia verde, mentre un attore vuole che sia, dal punto di vista attoriale, verde smeraldo tendente al prato. È bello ma complicato perché si richiede di riprodurre esattamente quello che ha in mente il regista per l’attore.
Se fossi un giornalista che domanda faresti a Christian?
Gli chiederei: “Christian, so che hai anche un’associazione benefica, parlamene”. Risponderei che anni fa, dal momento che non mi fidavo più di nessuno, ho creato un post su Facebook proponendo di donare tanti poco. Sono trascorsi undici anni, abbiamo già raccolto e donato circa quattrocentomila euro al confine turco – siriano, in Etiopia, in Benin e in Italia. Doniamo tutti 65 euro annui a testa e siamo 500 persone per un totale di 850/870 donazioni annuali e chi volesse unirsi a noi basta che mi scriva su Instagram e lo faremo entrare nella nostra favolosa famiglia.
Questo portale si intitola “La voce dello schermo”. Cosa significa per te ascoltare la voce dello schermo?
Per me significa soffermarsi sulla voce degli attori in lingua originale e sottotitolati. Credo che il settanta percento del nostro lavoro sia basato sulla voce e ritengo sia importante fare uno sforzo per guardare in lingua originale un film per apprezzare maggiormente la prova attoriale.
Di Francesco Sciortino