Per Margherita Mannino è un periodo pieno di soddisfazioni professionali. In queste settimane, infatti, la stiamo vedendo interpretare Alessia nell’ottava stagione di “Che Dio ci aiuti”. Nei mesi scorsi è stata impegnata in due spettacoli teatrali molto interessanti e diversi tra loro, come “Arlecchino”, con Andrea Pennacchi, e “Fino a quando la mia stella brillerà”, incentrato sulla vita di Liliana Segre. Abbiamo intervistato, su “La voce dello schermo”, Margherita che ci ha parlato di “Che Dio ci aiuti” e di cosa abbia rappresentato per lei interpretare Alessia in una serie così seguita. L’attrice ha confidato, inoltre, il suo amore per il teatro, quanto sia importante per lei salire su un palcoscenico e ha ricordato l’esperienza nel film “Il grande giorno”, al fianco di Aldo, Giovanni e Giacomo. A voi…

Salve Margherita, bentornata su “La voce dello schermo”. Ti stiamo vedendo in queste settimane nella nuova stagione di “Che Dio ci aiuti”. Cosa hai amato di questa esperienza?
Salve a tutti, bentrovati. Mi è piaciuto inserirmi all’interno di una serie che va in onda da tantissimi anni e di una squadra consolidata. L’aspetto più interessante è stato entrare a far parte di questa famiglia con la consapevolezza di trovare un pubblico affezionato a cui fare compagnia. È una sorta di ecosistema protetto che ti fa sentire un po’ a casa sia per il gruppo con cui si lavora sia per le storie delicate che entrano nelle case delle persone.
Per quanto riguarda Alessia, cosa ti ha affascinato di lei?
È un personaggio trasversale all’interno di questa serie e che sposta alcuni equilibri presenti. Mette Lorenzo in difficoltà a livello emotivo ma in maniera pura e senza doppi fini. Si trova a scontrarsi con la metodologia di Azzurra perché è abituata a un rigore diverso ed è sicuramente più razionale.
Come sei stata accolta dagli altri membri del cast?
Indubbiamente molto bene, è un ambiente molto sereno, ho giocato con Giovanni (Scifoni ndr.), è una persona molto simpatica, esuberante e con cui si chiacchiera in maniera spontanea. È stato un set molto sereno e garbato.
Cosa ha significato per te far parte di una serie così amata dal pubblico?
È un bel traguardo e una bella soddisfazione. Se per certi versi è un personaggio che può infastidire, dal momento che il pubblico ama Azzurra Leonardi, dall’altro è anche divertente assistere a come il pubblico reagisca agli sviluppi della serie.
Sei stata molto impegnata a teatro in questo periodo, sia nello spettacolo “Arlecchino” con Andrea Pennacchi sia in “Fino a quando la mia stella brillerà”, incentrato sulla vita di Liliana Segre…
Sì, abbiamo terminato entrambi gli spettacoli. “Fino a quando la mia stella brillerà”, lo portiamo in scena tra gennaio e febbraio in occasione del periodo dedicato alla Giornata della Memoria e lo riprenderemo il prossimo anno. Nasce dalla mia volontà di qualche anno fa di trasporre il libro in monologo, di raccontare questa storia e fare in modo che arrivasse a tanti ragazzi. È stato un percorso lungo ma pieno di soddisfazioni. Siamo arrivati a circa centocinquanta repliche ed è una storia che ha sempre una grande presa sia sui ragazzi sia sugli adulti.
Riguardo “Arlecchino”, invece, che sfida ha rappresentato per te?
“Arlecchino” è un altro mondo. Con molti dei colleghi ci conoscevamo da tempo, Andrea Pennacchi è stato il mio primo insegnante di teatro e l’ho ritrovato dopo vent’anni, è uno dei motivi per cui ho fatto questo lavoro: perché mi ha insegnato il mestiere. Ritrovarsi è stato catartico. È raro trovare una compagnia di questo tipo, con un grande affiatamento che ci consente di divertirci in scena, di creare novità ogni sera come improvvisazioni. Lo spettacolo funziona perché si percepisce quanto sia unita la compagnia. È un lavoro anche di denuncia sociale, perché tratta dei temi importanti attraverso la storia di Arlecchino, ma si pone su un altro piano rispetto all’Arlecchino di Strehler. È molto bello farlo ed è il secondo anno che va in scena. Siamo stati in tournee per quattro mesi e il fatto che io sia senza voce è il risultato della fatica (ride ndr.).
Che succede quando si è senza voce e si deve andare in scena?
Perdere la voce ti fa anche scoprire che puoi fare un personaggio in un altro modo rispetto a quello che avevi messo in scena il giorno prima. Si trovano bellissime alternative, che si scoprono molto efficaci. Abbiamo trovato escamotage come, ad esempio, l’intervento di musicisti molto bravi in punti in cui avrei dovuto utilizzare un tono più alto. È uno spettacolo che si presta anche a questi esperimenti e ce la caviamo sempre.
Quando si fanno tantissime repliche, come nel caso di “Fino a quando la mia stella brillerà”, come si riesce a trovare gli stimoli per portare in scena uno spettacolo per tanti anni?
In questo caso la forza sta nel racconto, nel valore e nell’importanza della storia che si va a raccontare. Può essere stancante ed emotivamente impegnativo, ma ho visto tanta emozione e commozione che mi fa capire quanto sia potente il teatro, soprattutto per i ragazzi che sono bombardati dalla tecnologia. Avere una persona in carne e ossa che racconta la storia, come si faceva da piccoli, è un qualcosa di dirompente e che apre dei mondi diversi rispetto a quelli a cui si è abituati. Capire che ciò che sto facendo è socialmente utile mi dà la forza per andare in scena tantissime volte.

Recitare con Aldo, Giovanni e Giacomo ne “Il Grande Giorno”, cosa ha significato per te?
È stato bellissimo e una grande fortuna. Loro sono fantastici ed esattamente come te li immagini. Insieme sono come dei fuochi d’artificio e recitare al loro fianco è come assistere a uno spettacolo continuo, hanno un dono raro, ma restano delle persone gentili, umilissime, disponibili, affabili, con i loro caratteri e particolarità. Non sono soltanto dei comici, ma dei grandi attori.
Cosa ti ha lasciato questa esperienza?
Sicuramente una profonda gratitudine e la convinzione che, nonostante le difficoltà del mestiere, la bravura, l’umiltà, la gentilezza e il rispetto pagano sempre.
Prediligi la commedia o il dramma?
Quando si recita in una commedia si vuole fare sempre il dramma e viceversa. È bello esplorare mondi diversi perché l’uomo è ricco di sfumature ed è bello raccontarle tutte. Non si può scegliere.
Cosa ami di più della recitazione?
Vari aspetti. Ad esempio, il teatro per me è un rifugio felice, un luogo dei sogni e magico e mi fa sentire su un’altra dimensione. La recitazione è la chiave per entrare in un mondo di fantasia e di sogni dove si può ancora volare con l’immaginazione. È fondamentale anche trovare uno scopo sociale a quello che faccio, lanciare messaggi importanti e raccontare storie che permettano a chi ci guarda di farsi muovere da qualcosa e di porsi delle domande.
Se fossi una giornalista che domanda faresti a Margherita?
Le chiederei se è felice in questo momento e risponderei di sì, perché posso fare il lavoro che amo.
Dove ti vedremo prossimamente?
Sarò in scena al teatro Goldoni a Venezia e al Verdi di Padova con l’ultimo spettacolo della stagione di “Ancora Tempesta” di Peter Handke e con la regia di Fabrizio Arcuri.
Di Francesco Sciortino