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Intervista ad Alice Torriani: “Monica de ‘Il Patriarca’ è una donna ferita in continua trasformazione. Non dobbiamo abbandonare il teatro” L’attrice si racconta su “La voce dello schermo” parlando de “Il Patriarca” e delle altre esperienze significative della sua brillante carriera da attrice di teatro, cinema e televisione, scrittrice di romanzi, sceneggiatrice e drammaturga.

Dic 20, 2024
Foto di Manuela Masciadri, Trucco di Asja Redolfi, abiti di Antonio Marras.

La seconda stagione de “Il Patriarca” si appresta a concludersi venerdì 20 dicembre. La serie diretta da Claudio Amendola ha reso avvincenti le serate del venerdì di Canale 5 e, tra un colpo di scena e un altro, ha dato modo di farci apprezzare le straordinarie interpretazioni dei protagonisti. Uno dei punti di forza della serie, oltre a un ritmo incalzante, sono sicuramente i personaggi ben scritti e approfonditi che si trovano sempre in bilico tra bene e male. Tra le interpretazioni degne di nota c’è sicuramente quella di Alice Torriani, che nella serie interpreta Monica e che ha sfoggiato le proprie qualità da attrice raccontando di una donna con delle ferite che la portano a essere in continua trasformazione. In vista del gran finale della serie abbiamo intervistato proprio Alice che si è raccontata su “La voce dello schermo” parlandoci degli aspetti che hanno reso indimenticabile la sua presenza ne “Il Patriarca” e di come abbia vissuto la continua evoluzione e tridimensionalità del suo personaggio. Ma non è tutto, Alice ha parlato del suo amore per il teatro, che la porta a non dimenticare mai il palcoscenico, nonostante sia molto presente tra cinema e televisione, e a indagare sui nuovi linguaggi del teatro, per sottolineare quanto sia importante che quest’arte non venga dimenticata e di quanto abbia bisogno di stare al passo con i tempi. Teatro, cinema, serie tv e scrittura, quattro arti differenti che Alice Torriani ha esplorato con successo e che ci hanno fatto rendere conto di quanto lei sia un’artista completa e versatile. A voi…

Foto di Manuela Masciadri, Trucco di Asja Redolfi, abiti di Antonio Marras.

Salve Alice, benvenuta su “La voce dello schermo”. Parliamo di Monica e de “Il Patriarca” cosa ti ha lasciato questa esperienza?

Salve a tutti, grazie. È stata un’esperienza molto profonda perché Monica ha subìto una trasformazione molto significativa dallo scorso anno. Sembrava un personaggio unidirezionale, un’antagonista pura ma in realtà, durante questa stagione, stiamo trovando delle crepe nel modo di percepirla ‘cattiva’. Assistiamo all’enorme sofferenza di Monica, che si trova a doversi riappropriare della propria vita e a riscoprire i rapporti più veri e che aveva dimenticato, come quello con Serena.

Com’è stato approfondire questo legame tra sorelle con Antonia Liskova?

È stato molto bello ricreare questo legame sia da attrice che da persona perché ho condiviso con Antonia momenti davvero preziosi. Ma abbiamo costruito un bellissimo rapporto con tutti i membri del cast, con la parte tecnica e ovviamente con Claudio Amendola. C’era una bellissima atmosfera e, durante le riprese in Puglia, siamo diventati un gruppo molto solido.

Secondo te, Monica è più vittima o carnefice?

Vive continue trasformazioni. È diventata da carnefice a vittima per poi, senza svelare nulla, diventare donna d’azione durante l’ultima puntata. Nella seconda stagione, è apparsa più vittima perché si aspettava qualcos’altro dall’arrivo di Raoul, avrebbe voluto un lavoro di squadra e una situazione del tutto differente anche con la sindaca. Ha subìto un grande tradimento e ha vissuto una forte solitudine.

Assistiamo infatti a un’inversione di tendenza, se durante la prima stagione Monica sembrava avere un peso in grado di schiacciare tutti, durante la seconda sembra un po’ schiacciata da Raoul…

No, Monica non può essere schiacciata da un uomo! (ride ndr.) Scherzi a parte, avviene un po’ questo e la propria sofferenza deriva dal fatto che il rapporto con Raoul è stato fondato più sugli affari e sull’azione insieme rispetto a un reale sentimento d’amore. Inizialmente sembrava essere un aspetto poco chiaro per lei. Con l’arrivo dell’uomo, invece, Monica si rende conto che effettivamente non c’è amore da parte sua, con l’aggravante che la parte destinata agli affari adesso è riservata alla sindaca. Monica si trova in un territorio di grande aridità e predica nel deserto. Ma se da un lato viene sovrastata dal marito, dall’altro è una donna che rinasce sotto un’altra forma. Ritengo che toccare il fondo nella vita sia sempre un’occasione di rinascita e sono contenta per Monica che ha potuto fare questa trasformazione. Sarebbe stato poco interessante e poco realistico vederla percorrere sempre una strada senza incontrare ostacoli. Ora che ha capito chi è lei anche senza questo uomo al suo fianco, si potrebbero aprire moltissime possibilità per lei.

Da attrice, invece, quali corde ti ha permesso di toccare Monica e che prova ha rappresentato per te?

Sicuramente mi sono posta la domanda: “Cosa c’è dietro la cattiveria?” perché spesso questo tipo di personaggi risultano un po’ bidimensionali, mentre per me la vera sfida è stata andare a toccare quel dolore profondo che causa la rabbia di Monica e che la spinge ad agire in modo ‘cattivo’. Ma è stato per me fondamentale andare a scoprire quel seme di dolore che l’ha spinta a compiere delle azioni così forti e a mostrare quel suo modo così cinico di agire della prima stagione. Era importante toccare quel nucleo di dolore e far sì che lo vedesse anche il pubblico. I due temi da attrice sono stati: esplorare quel seme di dolore e riuscire a manifestarlo senza essere troppo esplicita nello spiegarlo. Inoltre, dovevo anche gestire nel modo migliore la presenza importante e schiacciante del personaggio di Raoul che da un lato mi ha messo alla prova e dall’altro mi ha dato la possibilità di aggiungere battute e aspetti che non erano presenti nella sceneggiatura, proprio come reazione a questa presenza maschile importante.

Quali sono i punti di forza della serie?

Per prima cosa il ritmo e i colpi di scena che erano evidentissimi già dalla lettura degli script. “Il Patriarca” è un costante accadimento di eventi interessanti, che mantengono alta la concentrazione. Guardando la serie è come se stessi assistendo a dei fuochi d’artificio che si accendono, si spengono e si riaccendono. Un altro punto di forza è stata sicuramente l’atmosfera sul set, molto serena, tranquilla e Claudio è stato molto preciso e dettagliato nel creare ciò che voleva ma dandoci anche grande libertà. C’è stato un atteggiamento molto collaborativo da parte di tutti, ci siamo trovati molto bene dal punto di vista umano e ci ha permesso di creare un legame profondo.

Com’è stato esplorare questa tridimensionalità dei personaggi?

È il segreto di un approccio approfondito al lavoro e alla vita. Trovo che nessuno sia mai totalmente buono o cattivo. Siamo sempre abitati da luci e da ombre, da attrice è stato un continuo calibrare da luce a ombra e da ombra a luce o esplorare le zone completamente in ombra e quelle in luce. Ritengo che un personaggio ben scritto sia sempre caratterizzato da dei contrasti e spesso le ombre sono quelle che causano atteggiamenti positivi mentre la luce può fare il contrario. È importante far vivere i contrasti e gli opposti quando ci si approccia a un personaggio perché è quello che dà verità alle interpretazioni.

Tornando indietro alle altre tappe della tua carriera, quali ritieni le più significative?

Sicuramente l’esperienza teatrale con Romeo Castellucci e quella con Alvin Hermanis, con il quale abbiamo fatto due anni di tournee in giro per l’Europa. È stato molto formativo perché ripetere uno spettacolo per tantissime volte è una sorta di esercizio meditativo e permette di ritornare allo studio, all’approfondimento, alla replica ma è un metodo di lavoro che si ripresenta anche durante i ciak, che ti porta a essere presente durante quei momenti e a ripeterli sempre un po’ diversi. Un’altra tappa fondamentale è stata anche la scrittura dei miei due romanzi e ritengo il mio percorso da attrice a 360 gradi, perché la scrittura, il teatro, il cinema e la televisione sono arti che attingono l’una dall’altra e si arricchiscono a vicenda. Infine, ritengo che anche “Il Paradiso delle signore” sia stata un’esperienza molto formativa e mi ha dato la possibilità di lavorare su un set molto lungo in ambito televisivo.

“Il paradiso delle signore” ti ha dato anche tanta popolarità. Che rapporto hai con il pubblico?

Ho un rapporto strano con la parola popolarità, comprendo ciò che succede e che prima la persona viene vista in tv o al cinema da tante persone e poi viene riconosciuta per strada etc. ma non è una cosa a cui mi affido e la percepisco come un qualcosa che potrebbe essere passeggero e soprattutto che ha più a che fare con l’idealizzazione che con la verità. Sono una persona che si affida molto al rapporto vero e mi piace tanto quando le persone mi incontrano e avviene uno scambio umano, parlando dei libri e delle mie interpretazioni. Mi piace il rapporto con il pubblico quando è reale e avviene in una dimensione umana.

Sul tuo sito web, la tua prima definizione della biografia è “attrice di teatro”, è un caso che abbia scelto il teatro come prima arte da citare rispetto a cinema e televisione?

No, non è un caso. L’ho messo in primo piano perché è la mia formazione, ho studiato a diciannove anni all’accademia Paolo Grassi di Milano e sin dall’inizio ho avuto la possibilità di fare spettacoli da protagonista in giro per l’Italia e all’estero e quella teatrale è la mia formazione e sono contenta di ciò perché partire in questo modo mi ha posto delle basi, radici e credo fortemente che un’accademia teatrale possa creare fondamenta molto solide che ti permettono di spaziare. Io mi divido tra teatro, cinema, televisione, scrittura e vario moltissimo. Il teatro ha una dimensione di rito a cui tengo molto e che al cinema è molto più difficile da realizzare perché la ritualità riguarda più la proiezione in sala, ma nel teatro si crea un legame particolare tra il pubblico e gli attori perché ogni spettacolo non sarà mai uguale al precedente, scomparirà la sera stessa e questo rappresenta la magia dell’atto teatrale.

Il teatro è un mondo che si evolve e dovrebbe evolversi, ma conosciamo sempre poco riguardo quest’arte. Fai parte del gruppo “Fuoco alla paglia” che indaga i nuovi linguaggi del teatro. Cosa comportano i nuovi linguaggi teatrali?

Sicuramente comportano una domanda e il non avere una risposta e per me rappresenta un bellissimo luogo di ricerca. Molti di problemi che noi esseri umani abbiamo derivano dal cercare le risposte, ma più vai avanti nella vita più queste risposte si sgretolano e le convinzioni si modificano. Dal momento che credo che il teatro indaghi la vita, deve porsi delle domande che devono cambiare con l’evolversi della società. Non sono interessata ad esempio a replicare un modo di fare teatro che si faceva trent’anni fa. Non credo sia una cosa possibile. È importante capire come si evolve e come far tornare il pubblico in sala, dal momento che va sempre diminuendo e soprattutto non riesce a coinvolgere le nuove generazioni, che sono martellate di immagini e se hanno di fronte uno stile recitativo ormai un po’ obsoleto non riescono ad affascinarsi a questo rito. Bisogna trovare una nuova forma che abbracci anche i più giovani.

Foto di Manuela Masciadri, Trucco di Asja Redolfi, abiti di Antonio Marras.

La scrittura cosa rappresenta per te?

È il luogo dove esce davvero la mia voce. Da attrice ho sempre fatto da interprete e non ho ancora avuto modo di lavorare su dei lavori miei. Ho appena finito di scrivere due serie e spero vengano prodotte in modo da poterlo fare. Sui romanzi non avevo nessuna regia dietro, potevo decidere i miei tempi, i miei spazi, cosa cancellare e cosa no. La scrittura invece è un luogo meditativo, che mi fa incontrare con il mondo, con me stessa e con i temi che sono necessari in quel determinato periodo della mia vita. È un luogo per certi versi più protetto, in cui c’è più tempo per la creazione mentre nel momento in cui sei sul set devi essere sempre pronta ed efficiente, che è una cosa divertente e stimolante ma è anche bello trovare uno spazio dove non devi esserlo per forza, dove puoi sbagliare, in cui puoi scrivere e riscrivere parti della tua vita e avere il tempo per la riscrittura. È il luogo del processo, in cui mi do tempo e mi prendo tempo.

Se fossi una giornalista che domanda faresti ad Alice?

Le chiederei: “cosa ne pensi della tua carriera?”. Una volta sono andata a cercare l’origine della parola carriera ed era la strada dove passavano i carri, dove succedeva di tutto, cadevano i cavalli, c’erano mele marce per terra, bambini che piangevano e per me trovare questa definizione è stato molto illuminante perché noi immaginiamo la carriera come la salita verso la cima di una montagna, invece, è una strada dove accade di tutto. E risponderei: “Spero che accada di tutto, non mi importa di arrivare sulla cima ma è fondamentale conoscere il più possibile di me e delle persone che incontrerò, dell’arte della recitazione, della scrittura, del cinema e del teatro e di poter rimanere aperta alla possibilità che accada qualsiasi cosa e lo trovo sicuramente più importante rispetto a fare una corsa verso un luogo idealizzato”.

Questo portale si intitola “La voce dello schermo”. Cosa significa per te ascoltare la voce dello schermo?

Significa ascoltare quello che c’è al di là della voce dello schermo: ogni volta che vediamo un film arrivano le parole e le immagini, ma c’è qualcosa che sta dietro quelle parole e quelle immagini che è inspiegabile e che tocca le corde del tuo cuore. Secondo me la voce dello schermo è proprio la voce che dice ciò che nessuna parola o nessuna immagine del film ha detto e ci vuole una predisposizione molto affinata per riceverla.

 

Di Francesco Sciortino

By lavocedelloschermo

Francesco Sciortino, giornalista pubblicista dal 2014, appassionato di serie tv, cinema e doppiaggio. In passato cofondatore della testata online “Ed è subito serial”.

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