Il successo di “Parthenope” di Paolo Sorrentino ha messo in risalto la bravura dei diversi attori presenti nel film, impegnati in una vera e propria prova interpretativa nel rendere dei personaggi così complessi e ricchi di sfaccettature. Uno di questi è senza dubbio Raimondo, il ruolo probabilmente più drammatico del film e che ha richiesto al suo interprete, Daniele Rienzo, una notevole drammaticità e uno studio minuzioso per vestire i suoi panni. Abbiamo intervistato proprio Daniele che si è raccontato su “La voce dello schermo” e ci ha fatto comprendere meglio il complesso mondo di Raimondo, ci ha confidato cosa l’abbia impressionato di Paolo Sorrentino e la sfida che ha rappresentato per lui dover incarnare la purezza, la sensibilità, la fragilità e allo stesso tempo forza del giovane. Ma non è tutto, dalla magia di “Parthenope” a quella di “Uonderbois”, Daniele ha infatti voluto ricordare anche l’esperienza nella serie tv firmata Disney+ e che è online da qualche settimana. A voi…
Salve Daniele, benvenuto su “La voce dello schermo”. Partiamo ovviamente da “Parthenope”. Cosa ti porti dietro da questo set?
Salve a tutti, grazie. È stato un bel lavoro, sono molto felice. Lavorare su un set del genere ti mette molto alla prova perché, essendo un film con un budget elevato, cosa che non succede spesso in Italia, è sicuramente qualcosa che non ti permette di metterti in una condizione di fare errori. Vedere tutto l’amore e l’energia che hanno dato le persone che hanno lavorato a questo film, dagli attrezzisti a Paolo, mi ha molto colpito. Sono rimasto di stucco nel vedere in che modo le persone possano collaborare come se fossero un organismo complesso al fine di portare a termine un lavoro che ha uno scopo comune. È molto raro al giorno d’oggi riuscire a lavorare in questo modo con il fine di realizzare qualcosa a livello comunitario.
Riguardo Raimondo, incarna un po’ il lato fragile di Napoli, tra gli aggettivi attribuitigli ci sono “sensibile”, “autolesionista” e “drammatico”. Cosa ha rappresentato per te questo personaggio?
Bisognerebbe scrivere un libro su Raimondo. È un esempio di purezza umana ed è difficile da analizzare. Rappresenta Napoli dal punto di vista dell’uomo che vive in quella città e quella bellezza. Tuttavia, interpretandolo non ho pensato di rappresentare qualcosa di grande o di epico, ho cercato di lavorare più sull’umanità, sulla semplicità e sul piccolo perché credo che partendo da lì si arrivi anche al grande. Ritengo che Napoli sia irrappresentabile, è una città molto paradossale e dove si va a raccontare qualcosa si va sempre a smentire qualcos’altro. Ci hanno provato tante persone senza arrivare mai a un compimento completo del racconto della città, per quanto “Parthenope” comunque sia un film molto completo e bellissimo nel raccontare uno spaccato di Napoli.
Come si raccontano stati d’animo del genere e come si entra nel personaggio di Raimondo?
Studiando tanto. Credo che ogni attore abbia il proprio modo di approcciarsi al lavoro. Prediligo l’approccio psicologico a quello accademico e quello che ho cercato di fare con lui è stato provare a entrarci dentro, abituandomi a determinati stati d’animo, leggendo libri che trattavano tematiche o sentimenti particolari, mangiando cibi che portano determinate sensazioni e isolandomi. È stato un lavoro molto totalizzante per poter arrivare alla libertà riprodotta in scena.
In che modo l’alimentazione ha influito nella creazione di Raimondo?
Capita nella vita di stare male per qualche motivo e alcune circostanze ti portano a stare a letto, senza voler mangiare e sentendoti un po’ giù di morale. Con molta semplicità ho pensato a quale potesse essere il leitmotiv di Raimondo in rapporto con il cibo e non riuscivo a identificarlo come una persona golosa, che ama mangiare e che ha sempre appetito. Mi sono ispirato a delle persone che scrivono, che sono così piene nella testa da mangiare pochissimo. Inoltre, ritengo che il lavoro sul corpo per un attore sia fondamentale per poter trovare la chiave per muoversi all’interno dello spazio e ti guida quando non sai dove andare. Ricreare un personaggio che mangia poco e un po’ più debole fisicamente credo abbia aiutato Raimondo a vivere la scena in maniera veritiera.
“Parthenope” è un film che spinge lo spettatore a porsi degli interrogativi. Da essere umano quali domande ti ha posto?
Sono tante. Ad esempio, quanto costa la sensibilità alle persone? È veramente questo il destino delle persone sensibili? Spesso vengono isolate e spinte a farsi da parte e, se c’è una persona che soffre, il suo stato d’animo viene un po’ minimizzato o gli viene detto: “cresci! È così e non ci puoi fare niente” e questo senso di rassegnazione non è un sentimento che appartiene a Raimondo dal punto di vista umano. Interpretarlo mi ha fatto riflettere molto e mi ha insegnato tanto.
Nella foto Celeste Dalla Porta e Daniele Rienzo
Foto di Gianni Fiorito
Secondo te perché si è deciso di raccontare questo rapporto quasi incestuoso con Parthenope?
Non saprei, dal mio punto di vista questo tipo di rapporto tra Parthenope e Raimondo non è detto che ci sia perché non viene mai visto. Assistiamo a un grande amore poco carnale e più platonico ma credo che il rapporto incestuoso sia differente, almeno da quanto ho percepito io.
La bellezza di Parthenope è sembrata talmente grande da far cascare ai suoi piedi chiunque però…
Sicuramente, tuttavia il rapporto tra lei e Raimondo è molto più paritario rispetto a ciò che sembra. Nessuno è succube dell’altro. È come se fossero due facce della stessa medaglia. La leggenda di Parthenope racconta di una sirena che si uccide per amore e perché non riesce ad avere Ulisse. Raimondo è come se facesse rivivere questo mito e rappresenta il lato fragile della donna.
Com’è stato essere diretto da Sorrentino?
Adoro Paolo, è una di quelle persone che ti ispirano e mi sento molto grato ad averlo incontrato. Mi sono sentito molto compreso, ascoltato e libero. Ha capito che ne avevo bisogno e mi ha lasciato molto spazio. Quando ti dirige ti dice sempre una piccola cosa giusta riguardo la scena ed è una caratteristica grandiosa, che fa la differenza e che lo rappresenta.
Cosa è avvenuto durante l’ultimo ciak di Raimondo?
È stata una scena molto intensa e per tanti motivi era incentrata sul lasciare andare Raimondo. Dal mio punto di vista è stata molto importante, ho lavorato tanti mesi per quella scena e, una volta girata, è stato come passare un esame enorme e per il quale studi per un anno. È stato un momento per certi versi liberatorio, al termine del quale ho abbracciato Paolo e ho ringraziato tutto il set.
Che mentalità serve per poter approdare a un film di Sorrentino?
Serve studiare e fare altri lavori per imparare ad avere l’umiltà di sapere cosa significa ‘servire’ ai tavoli o in un banco di un bar e per me è l’aspetto che fa comprendere al meglio la mentalità che ci vuole per stare su un set di Sorrentino. Servono piedi ben saldi a terra per lavorare nel migliore dei modi in un film del genere. Amo la scrittura e la sceneggiatura di ‘Parthenope’: era meravigliosa e la più pregna, poetica e significativa che abbia mai letto.
Da “Parthenope” alla serie tv di Disney+ “Uonderbois”, progetto che ti ha permesso di rafforzare il tuo legame con Napoli, raccontandone una parte più magica. Che esperienza è stata per te e perché è stato stimolante farne parte?
In realtà “Uonderbois” è un lavoro che è arrivato prima di “Parthenope”, essendo stato girato circa un anno prima. Riguardo ciò che è stato raccontato di Napoli, credo che entrambi i prodotti avessero della magia dentro, ovviamente in declinazioni differenti. Mentre “Uonderbois” possiede una magia più giocosa, infantile, per ragazzi; la magia di “Parthenope” è più matura, poetica e fruibile a tutti. È stato stimolante farne parte e sono legato a questa serie perché mi ha riportato a lavorare a Napoli dopo tanti anni e per questo motivo è stata una bella emozione per me.
Secondo te, un attore riesce a scegliere le proprie interpretazioni?
Sono le interpretazioni che scelgono l’attore. Ognuno si porta dietro una determinata energia e dietro questa c’è uno specchio di possibilità e di interpretazioni. Credo che tutta l’esperienza di vita ti dia la possibilità di interagire e di poterti approcciare a una moltitudine di cose e per l’energia che mi portavo addosso in quel determinato periodo era giusto che facessi Raimondo e non Sandrino ad esempio.
Credi che il cinema, quello vero, sia di nicchia o di tutti?
Il cinema è di tutti, a mani basse, e di chi se lo vuole prendere.
Dopo il dramma di Raimondo, quali tematiche ti piacerebbe trattare in futuro?
Spero di raccontare tematiche utili per qualcuno. La responsabilità di uno scrittore, di un regista, di un attore o di chiunque lavori nell’arte in generale è di creare dei buoni messaggi e non soltanto distrazioni.
Questo portale si intitola “La voce dello schermo”. Cosa significa per te ascoltare la voce dello schermo?
Significa perdersi nelle immagini come se fossero musica.
Di Francesco Sciortino