Il 31 ottobre sarà il giorno di “Fino alla fine”, nuovo film di Gabriele Muccino che racconta la storia di cinque ragazzi con vite al limite. Nel cast troviamo Elena Kampouris, Saul Nanni, Lorenzo Richelmy, Enrico Inserra e Francesco Garilli.
Abbiamo intervistato, su “La voce dello schermo” proprio Enrico Inserra, che abbiamo visto in alcune serie tv di successo come “1994” e nella miniserie “Solo per passione – Letizia Battaglia fotografa” di Roberto Andò. L’attore ci ha anticipato cosa dobbiamo aspettarci da “Fino alla fine” e ci ha presentato il personaggio di Samba, uno dei cinque protagonisti. Inoltre, Enrico ha parlato di cosa abbia rappresentato per lui essere diretto da Gabriele Muccino e quanto sia stato importante girare in una città come Palermo. A voi…
Salve Enrico. Benvenuto su “La voce dello schermo”. Dal 31 ottobre ti vedremo nelle sale con “Fino alla fine”, il nuovo film di Gabriele Muccino. Cosa dobbiamo aspettarci?
Salve a tutti. Grazie. Credo che “Fino alla fine” si allontani un po’ dal genere in cui abbiamo conosciuto Muccino. Ha dei tratti noir, di thriller, di azione e lo rende un film diverso da quelli da lui diretti. Il fatto che le vicende riguardino cinque ragazzi potrebbe far credere che sia un teen movie o orientato in una direzione simile ma, in realtà, è un molto adulto che parla di decisioni importanti che si prendono nella vita, che definiscono la strada che percorrerai e che in quel momento non sai che è quella definitiva.
Cosa hai amato di questa esperienza?
È stato importante per me interpretare un personaggio così al limite, che camminava su un filo e non è molto facile da trovare in giro. È stato molto bello poter avere a che fare con una persona che realmente sta camminando sul bordo della scogliera con il dirupo dall’altra parte. Tutti i personaggi, compreso il mio, compiono delle scelte, a volte pericolose, con un’incoscienza tipica dell’età che hanno e con uno stile di vita particolare, perché sono cresciuti da soli, per strada, e questo li fa essere maggiormente deresponsabilizzati. Sono come dei bambini sperduti che vivono uscendo dal contesto che la società gli impone e li porta a essere sempre in bilico.
Il personaggio di Samba quali altre corde ti ha permesso di toccare?
È estremamente impulsivo e mi ha permesso di poter ragionare nell’ottica di qualcuno che fa delle scelte avventate. È molto fisico, cerca di comunicare attraverso il contatto, gesticolando e toccando l’altro. La definizione di questo personaggio passa anche attraverso il rapporto con il fratello, Komandante, interpretato da Lorenzo Richelmy.
Quali opportunità ti ha dato lavorare con Muccino?
È uno dei registi migliori che ci sono, non soltanto in Italia. Avendo avuto la fortuna di essere diretto da lui, posso dire che è una palestra importante perché ti richiede una generosità senza la quale tutta la bellezza della verità che vediamo nei rapporti che lui mostra non sarebbe possibile.
Che tipo di regista è?
È estremamente innamorato di quello che fa ed è l’incarnazione dell’amore per il cinema.
Quale fascino possiede interpretare un ruolo che non è né un buono né un cattivo?
Ovviamente tutti i personaggi scritti meglio sono di questa tipologia. Non esistono solo buoni o solo cattivi perché nella vita siamo tutti pieni di sfaccettature. Poi sarà il pubblico a definirlo perché nel momento in cui lo interpreto non posso giudicarlo. Diventando Samba non mi sono posto il problema di essere buono o cattivo perché credevo in quello che facevo e non mi preoccupavo del giudizio e allo stesso tempo nemmeno lui si preoccupava molto del giudizio degli altri.
Come saranno affrontate le storie dei ragazzi?
Non ci sarà un vero e proprio approfondimento sulle loro vite, le informazioni che noi avremo verranno date nel corso del film e saranno soltanto quelle necessarie per capire il contesto in cui ci troviamo. Sono dei ragazzi come tanti, che non sono cresciuti con una particolare educazione ferrea o non particolarmente seguiti da qualcuno. In particolar modo Samba e Komandante sono cresciuti un po’ da soli e si sono un po’ arrangiati vivendo la vita come volevano. La bellezza del poter essere autonomi da piccoli inevitabilmente comporta tante scelte sbagliate.
Vedremo una Palermo che fa da sfondo alle vicende. Come mai secondo te si è scelta questa città per raccontare questa storia?
Perché Palermo è tanto ricca di possibilità di scenari e di storia che rende fattibile qualsiasi tipo di racconto e non ti pone dei limiti. Incarna quello che cercava Gabriele riguardo alla libertà di poter ambientare una storia così al limite, in un posto che permettesse tutto questo percorso intrapreso. Palermo è perfetta in questo ed un valore aggiunto per qualsiasi film perché è una città meravigliosa.
Perché associ il concetto di libertà a Palermo?
Perché è un posto in cui la libertà è respirabile. Dall’architettura, avendo tantissimi stili per la storia che ha, che la rendono una rappresentazione dell’umanità che avanza e del tempo che è passato. È una città estremamente multietnica e ricca di culture, anche se quella portante è quella siciliana e palermitana. Abbiamo anche girato alla Vucciria, in mezzo al cuore pulsante di Palermo.
Perché il pubblico deve vedere “Fino alla fine”?
Perché penso che film del genere, soprattutto in Italia, se ne facciano pochi. Inoltre è diretto da un maestro delle relazioni e dei rapporti umani come Muccino ed è unico.
Quali sono le altre esperienze a cui tieni di più e perché?
Ne scelgo due: “1994” perché credo che mi abbia insegnato tanto essendo uno dei primi progetti importanti a cui ho fatto parte, visto che all’epoca studiavo ancora all’Accademia Silvio D’Amico. È stato per me un punto di svolta perché ho capito cosa significasse il mondo del lavoro in questo ambito. Poi cito sicuramente “Solo per passione – Letizia Battaglia fotografa” perché mi ha permesso di lavorare con un regista come Roberto Andò che è estremamente bravo, rigoroso e un professionista vero. Sono dovuto crescere tanto perché c’era la necessità di farlo, non che gli altri con cui ho lavorato non fossero dei professionisti, ma con lui avvertivo la sensazione di dover essere più grande rispetto a quello che ero.
Hai fatto anche Teatro. Cosa significa per te andare sul palcoscenico durante questi anni?
Ho fatto teatro in accademia ed è da un po’ che non sto sul palco. Credo però che sia un po’ la forma primaria della recitazione e che quello che facciamo sul palco si esalta molto di più perché, da attore, senti sulla tua pelle ciò che sta accadendo, c’è una consapevolezza diversa perché non è ripetibile e viene visto in quel momento soltanto. Ti porta ad avere un’attenzione e una forza diversa rispetto a quella che metti sul set, che non significa più o meno importante, ma differente.
Non credi che spesso venga data poca rilevanza a questo mondo?
Credo sia un fatto culturale. In Inghilterra o negli Stati Uniti c’è un radicamento culturale molto forte nei confronti del teatro, Broadway è ad esempio una delle attrazioni principali di un turista che va a New York o di un americano stesso. Ultimamente, in Italia, c’è un’attitudine minore ad andare a teatro magari orientando le proprie scelte su altre soluzioni. Diventa quasi normale la riduzione del bacino di utenza. Tuttavia, con il teatro di qualità, di cui sono il primo fan e la prima persona che corre per andarlo a vedere perché credo ne valga la pena, cambia un po’ la situazione. In Italia abbiamo tanti artisti bravi che meritano di essere visti.
Se fossi un giornalista che domanda faresti a Enrico?
Gli chiederei: “Quale film mi consiglieresti?” e risponderebbe: “Cuore Selvaggio” di David Lynch.
Questo portale si intitola la voce dello schermo. cosa significa per te ascoltare la voce dello schermo?
Significa ascoltare quasi una persona della tua famiglia e per me, che sono nato con la televisione in casa, la voce dello schermo è un qualcosa di innato.