Dal 20 marzo sono disponibili, su Amazon Prime Video, gli episodi di “Sconfort Zone”, nuova serie diretta da Maccio Capatonda e da Alessio Dogana con protagonisti lo stesso Maccio (Marcello Macchia), Francesca Inaudi, Giorgio Montanini, Camilla Filippi, Valerio Desirò, Edoardo Ferrario, Gianluca Fru e Valerio Lundini.
Con grande piacere abbiamo intervistato, su “La voce dello schermo”, uno dei volti più rappresentativi del nostro cinema, teatro e serialità: Francesca Inaudi. L’attrice si è raccontata parlandoci di Miriam e di cosa abbia rappresentato per lei confrontarsi con la “Sconfort Zone” di Maccio, tra crisi creative e sorrisi che fanno riflettere. E se la serie racconta i momenti di difficoltà che può attraversare un creativo, abbiamo chiesto a Francesca quali siano le situazioni che possono mandare in crisi un’attrice: dall’entrare nel personaggio alla direzione che una carriera può prendere. Ma non è tutto, l’attrice ci ha confidato altre curiosità che riguardano il proprio percorso artistico, che racchiude l’essenza della recitazione. Ci ha regalato, infatti, interpretazioni più leggere, come l’indimenticabile Maya in “Tutti Pazzi per amore”; interessanti performance drammatiche come in “Ninna Nanna”, “Noi credevamo”, “Tre Tocchi”; e lavori con registi di spessore nazionale e internazionale come Ron Howard, Ridley Scott, Francesca Comencini, Paolo Virzì, Marco Risi, Daniele Vicari e con i grandi del teatro come Ronconi e Strehler. A voi…

Salve Francesca, benvenuta su “La voce dello schermo”. Dal 20 marzo ti vedremo su Amazon Prime Video in “Sconfort Zone”. Quali aspetti hai amato della serie e di Miriam?
Salve a tutti, grazie. È stata un’esperienza estremamente positiva perché è sempre gradevole far parte di un prodotto leggero come questo. La commedia, in modo particolare quella di Maccio, è sempre affascinante e liberatoria. È stato divertente e interessante sperimentare un linguaggio meno usuale per quel tipo di commedia, con dei toni un po’ più seri e drammatici. Di Miriam mi è piaciuto raccontare la sua capacità di rimanere fedele a se stessa, di non aver timore di affrontare una relazione che non funziona e di non abbattersi nel momento in cui deve prendere una posizione chiara nei confronti di Maccio.
Com’è stato lavorare con Maccio?
Sia lui sia Alessio (Dogana ndr.) sono stati due registi estremamente attenti e presenti, aspetto non scontato in un periodo come questo in cui capita spesso, per questione di tempo o per altri motivi, che si diriga un po’ meno e si lasci fare all’attore. La direzione che volevano prendesse il personaggio e l’idea di Marcello rispetto alla serie erano molto chiare. È più facile e piacevole lavorare così, perché sai quale strada percorrere.
La serie racconta la crisi creativa di un comico e di un creativo che scrive ciò che poi andrà a interpretare. Quali sono le crisi che può vivere un’attrice, invece?
L’attore è più un interprete e può affrontare, per certi versi, una crisi nella costruzione della propria interpretazione e vive un momento in cui deve spezzare qualcosa della propria identità personale per poter abbracciare quella del personaggio. Questo, inavvertitamente, porta a una crisi, perché ti consente di togliere e di abbandonare delle parti di te, che al personaggio non servono, per permettergli di emergere. Inevitabilmente porta a un contrasto perché l’ego ti dice: “Io non voglio smettere di essere Francesca Inaudi per diventare Miriam”, invece è un percorso necessario per dare spazio al personaggio che si interpreta.
La direzione che può prendere un percorso artistico, secondo te, può mettere in crisi?
Dipende, credo che l’essere umano abbia costantemente delle crisi, essendo combattuto con la propria identità, come racconta anche la serie. Tuttavia, ritengo che ogni essere umano che voglia crescere e svilupparsi debba attraversare sistematicamente delle crisi. Ogni volta che cresciamo c’è una parte di noi che muore e un’altra alla quale lasciamo spazio. È il fondamento della crescita e senza crisi non può esserci un’evoluzione.

Come si esce dalla comfort zone?
Con curiosità, che comporta assenza di giudizio, e con coraggio, cuore e poca logica, perché quest’ultima non ti permette di uscire dalla comfort zone. La testa e la mente cercano di tenerti dentro ciò che conosci e che pensi non ti faccia male, mentre il cuore deve guidarti alla scoperta delle cose sconosciute e ti dice: “fidati di me, anche se non sai come va a finire io ti dico che questa cosa è giusta per te”.
Tra le donne che hai interpretato, ce ne sono alcune che ti rendono fiera?
Dirò tre esempi di donne totalmente diverse. La prima è Maya di “Tutti Pazzi per amore”. Ne vado fiera perché era un personaggio che potenzialmente poteva sembrare superficiale e bidimensionale ma che invece per me è stato grande fonte di crescita e molto liberatorio. L’ho vissuta come un clown, che è sempre parte di esplorazione della nostra anima bambina e con uno sguardo puro sulle cose, pur avendo un eccesso di tutto: colori, entusiasmo e sessualità. La seconda è Cristina di Belgiojoso in “Noi credevamo” perché è un pezzo di storia importante ed è una donna poco conosciuta e poco esplorata, ma fondamentale per la nostra storia. Infine, la terza che scelgo è Anita, la protagonista di “Ninna Nanna”. È un film sulla depressione post partum che pochi hanno visto, perché è praticamente introvabile, ma che ci tengo particolarmente a ricordare perché non ero mamma quando l’ho girato e tante persone sono venute a dirmi che grazie a quel film hanno elaborato e sostenuto situazioni che sono arrivate dopo in una maniera diversa rispetto a come avrebbero fatto se non l’avessero visto. Per me è fonte di grande orgoglio.
Hai lavorato con grandissimi registi sia del panorama nazionale sia internazionale, come Virzì, Ridley Scott, Ron Howard, Strehler e tanti altri. Quali sono stati, secondo te, gli incontri che hanno segnato positivamente la tua carriera?
Farei un torto a qualcuno dicendo un nome piuttosto che un altro. Credo ci sia una ricchezza in ogni progetto, idea, film e scambio. Ogni persona fa parte del mio percorso e mi ha insegnato o dato qualcosa di importante.
Il palcoscenico perché è importante per te?
Perché è l’unico luogo dove c’è veramente libertà assoluta. Non c’è nessun altro posto dove si possa fare questo mestiere con la stessa libertà presente su un palcoscenico. Pur essendoci una regia che delimita i confini e che ti dà un binario da percorrere, ogni sera, quando si apre il sipario, siete tu, chi sta in scena con te e il pubblico con cui fai quel viaggio magico che è uno spettacolo teatrale. Non esiste niente come il teatro, dal mio punto di vista.
Come reputi il teatro di oggi?
Forse un po’ commerciale, come tutto il resto. Siamo entrati molto nella mentalità orientata più sul prodotto, ma credo sia importante conservare l’autenticità e l’integrità che appartiene al teatro e che ci sarà sempre. Perché è un male chiudere i teatri o i cinema? Perché ci sarà sempre qualcuno che ci andrà se un luogo è aperto e fa una programmazione. L’essere umano è un animale sociale e se gli dai un luogo di socialità tenderà ad andarci, se gliela togli non ci andrà più.
Si parla tanto di modernità del teatro. Secondo te, il binomio tradizione – modernità è possibile all’interno di questo mondo?
Gli americani lo fanno benissimo e penso di sì. Credo che si possa fare teatro anche senza usare i microfoni. Conosco, stimo tantissimo e voglio bene a Pia Lanciotti, che è in grado di fare a teatro interpretazioni dotate di una sottigliezza, di una profondità, di leggerezza e di precisione senza tromboneggiare, perché spesso si accusa il teatro di amplificare i gesti e le voci. Credo sia assurdo dover vedere le casse da stadio e la gente che sussurra al microfono e non penso sia questa la modernità. La mia idea di innovazione consiste nel modificare gli strumenti tradizionali, visto che l’attore è dotato di una voce e di un corpo, e credo si debba da un lato lavorare su questo aspetto e dall’altro dovremmo abituare e educare gli spettatori ad ascoltare le voci degli attori a teatro. A volte la modernità sta nel saper fare un passo indietro e nel riappropriarsi degli strumenti che venivano utilizzati, che funzionavano prima e che devono essere valorizzati.
Se ti chiedessi: “Chi è Francesca come attrice”, cosa risponderesti?
Risponderei che non lo so e lo dico sinceramente. Ho sempre pensato di essere in un certo modo e questo ha protetto la integrità morale e la mia idea romanticissima di attrice e di recitazione. Tuttavia, la metto tante volte in discussione perché, in un mondo che si trasforma, rimanere troppo attaccato alla tua idea può farti rimanere indietro. Sicuramente ti direi che sono un’attrice che cerca di mettersi alla prova, tenendo ben saldi i miei valori e chiedendomi in che modo posso applicarli per veicolarli meglio.
Questo portale si intitola “La voce dello schermo”. Cosa significa per te ascoltare la voce dello schermo?
Significa sospensione del tempo della mia vita, della mia testa, della mia immaginazione ed entrare dentro altri mondi e universi.
Di Francesco Sciortino