Dopo l’intervista a Giulio Scarpati, “La voce dello schermo” prosegue il suo momento nostalgia dedicato ad “Un medico in famiglia”. Abbiamo intervistato, infatti, Ugo Dighero, ultimamente a teatro con lo spettacolo “Ma mai nessuno la baciò sulla bocca”. L’attore, amatissimo per aver interpretato il pupazzo Gnappo in “Mai dire gol” e Giulio Pittaluga in “Un medico in famiglia”, ha presentato il suo spettacolo, ricordato gli anni in televisione tra Gnappo, Giulio e i Broncoviz ed ha fatto una riflessione sui mondi di teatro, cinema e televisione dei nostri giorni.
Partiamo da lo spettacolo teatrale in cui sei impegnato: “Ma mai nessuno la baciò sulla bocca”. Presentaci un po’ questo spettacolo e cosa ti piace di più del personaggio che interpreti?
All’interno di “Ma mai nessuno la baciò sulla bocca” sono presenti tanti personaggi a cui sono molto affezionato, uno di questi è Gnappo, che ho fatto anche in “Mai dire Gol”. E’ un formicone gigante che racconta favolette con una chiave interpretativa cinica, tutta sua e particolare. Nelle favole ci sono spesso delle cose agghiaccianti e contraddizioni assurde. Gnappo mette in risalto queste contraddizioni e poi gioca un po’ con i paradossi. In “Mai nessuno la baciò sulla bocca” ho utilizzato Gnappo e il racconto di “Cappuccetto Rosso”, “La bella addormentata nel bosco” e “Biancaneve e i sette nani”. Per il titolo ho preso spunto da “La bella addormentata nel bosco”, perché, nella versione di Gnappo, il principe azzurro vede la bella addormentata, la bacia, si spinge anche un po’ oltre ma non la bacia mai sulla bocca. Si fa i fatti suoi e poi se ne va. Dopo si sparge la voce e c’è una fila di tanti principi azzurri ma, come dice il titolo, mai nessuno la baciò sulla bocca.
Quali altri personaggi sono presenti in questo spettacolo?
Oltre a Gnappo, ho scritto un monologo e ho ripreso un personaggio dei due muratori, che facevo con Crozza. Il mio muratore, Pino, mi piace tantissimo. Strapopolare, con una formazione molto modesta ma che comunque cerca di interpretare la vita e ciò che gli succede con i suoi strumenti e provoca una visione grottesca e ridicola. Lo spettacolo si apre con Pino un po’ sconsolato, che espone la domanda delle domande: “Dio c’è o non c’è?”. Quindi, si tratta di un monologo che Pino fa sull’esistenza di Dio e chiedendosi dove sia. Lo spettacolo non ha un’unità narrativa dall’inizio alla fine. Pino porta in scena una valigia, al cui interno ci saranno degli oggetti che stimoleranno la narrazione e ci porteranno al personaggio successivo. Inoltre c’è uno straordinario pezzo di Benni, che si intitola “Il Dottor Divago” e che racconta di un uomo distrutto perché è finito un amore. Lui è disperato, in autostrada si ferma, riflette su questa cosa e alla fine decide di suicidarsi. Man mano che questo personaggio si racconta, scopriamo il motivo della fine del loro rapporto: perché lui è un continuo divagare, come dice il titolo, e non riesce a rimanere focalizzato su alcun argomento. E’ un rompiscatole colossale. Si tratta di un pezzo molto divertente, con la scrittura straordinaria di Stefano Benni. Oltre che con Benni, ho collaborato anche con Marco Melloni, autore di Vergassola e di tantissimi programmi della Dandini. Poi un ultimo pezzo, scritto da me, che si intitola “Il processo”. Si racconta di un processo folle e assurdo, in cui io interpreto tutti i personaggi: il giudice, l’accusato, la difesa, il pubblico ministero, il testimone, utilizzando la tecnica di Dario Fo. Io è da anni che giro con “Mistero Buffo” di Dario Fo e mi ha stimolato tantissimo. E’ molto impegnativo, ma molto divertente. E’ un processo assurdo, comincia con l’accusato incredulo perché è accusato di omicidio ma in realtà è lì perché ha ordinato un panino con le melanzane. Ho ripreso dei personaggi a cui ero molto affezionato e devo dire che mi diverto molto. Il pubblico si diverte, io sono molto contento. Per cui sono molto felice dell’ultimo sforzo.
Durante la tua carriera, e tuttora, ti sei dedicato moltissimo al teatro. Quali sono i motivi di questa scelta? Cosa ami di questo mondo?
Ho cominciato la mia carriera in teatro, ne sono molto legato ed è il campo nel quale è più difficile darla a bere se non hai talento. Mi piacciono le scommesse e mi piace mettermi in gioco, per cui è sempre il mio terreno prediletto. Poi, ovviamente, non è che lo preferisco rispetto al cinema o alla televisione, che sono altri due campi che amo allo stesso modo. L’ultima fiction che ho fatto è stata “Grand Hotel”, che è andata molto bene e la Rai non si aspettava un simile successo, ma è stata lasciata a metà sul finale di stagione. Non so perché non abbiano deciso di procedere con un secondo ciclo di episodi, anche perché era già scritta. Questo è l’ultimo lavoro che ho fatto in Rai. Dopo non ho avuto l’occasione di fare altro.
Una delle fiction di cui hai fatto parte è “Un medico in famiglia”. Che legame hai con questa fiction e com’è stato ritrovarla dopo tanto tempo?
E’ stato molto particolare. Io ho fatto la prima stagione, che si è girata nel 1997. Sono stati quattordici mesi di riprese ed è stato un lavoro infinito. Sono tornato nella sesta stagione ed ho ritrovato cresciuti quelli che erano i bambini della prima stagione. Pensiamo ad Annuccia, che nella prima stagione aveva tre anni e nella sesta era una ragazzina. Ho trovato sempre un bellissimo cast. Scarpati è di una delizia assoluta, sia come attore che come persona, mi sono sempre trovato bene con tutti e sono sempre stato orgoglioso di aver fatto parte di un prodotto che ha avuto un enorme successo e che faceva ascolti inimitabili. Era stato tratto da un format spagnolo con l’obiettivo di arrivare a tutti. Ogni persona poteva riconoscersi in un personaggio, partendo da Annuccia e arrivando a Nonno Libero. Questa è una delle chiavi del successo.
Qualora ci sia un’undicesima stagione, ci sono possibilità di rivederti?
Be’, ogni volta che mi hanno chiamato in “Un medico in famiglia” non mi sono mai tirato indietro. Mi piaceva Giulio, era un personaggio comico e trasgressivo. Anche se, ultimamente, si sono concentrati più sulle storie dei ragazzi e forse ci sono anche dei motivi economici. Se si facesse e mi chiamassero tornerei ben volentieri.
Hai fatto parte di tantissime altre fiction in tv, quali sono quelle che vorresti ricordare di più e perché?
Sono molto legato a “RIS”. L’ho fatto per cinque anni. Anche quello era un prodotto innovativo per l’Italia del tempo. E’ stata una bella avventura, con colleghi straordinari. Mi è piaciuto, inoltre, interpretare due personaggi realmente esistiti in due film per la televisione. Uno è Don Pino Puglisi, ucciso a Palermo dalla mafia, che si occupava di istruzione dei bambini. Però la mafia sapeva che il suo nemico numero uno era la cultura, la sapienza e la conoscenza ed è stato ucciso per questi motivi. Poi ho interpretato, sempre in Sicilia, Emanuele Cirinnà, un sindacalista che lavorava nei cantieri navali di Palermo. Anche lui ha denunciato la mafia e ha avuto una vita molto complessa. Sono state due bellissime avventure. Quando interpreti personaggi realmente esistiti c’è un coinvolgimento emotivo diverso e molto interessante.
Che ricordi hai dei tempi con la Gialappa’s e dei Broncoviz?
I Broncoviz sono stati l’inizio di tutto. Noi lavoravamo a teatro, insieme a Marcello Cesena, Maurizio Crozza, Mauro Pirovano e Carla Signoris. Abbiamo proposto le nostre gag ad “Avanzi” con Serena Dandini, sono subito piaciute e da lì è iniziata la nostra avventura. Siamo stati in “Avanzi”, in “Tunnel” e poi è arrivata la straordinaria opportunità con la Gialappa’s. Se ci riflettete, quasi tutti i più grandi comici degli ultimi anni sono nati da “Mai dire gol”, come Aldo, Giovanni e Giacomo, Gioele Dix, Paola Cortellesi, Maurizio Crozza, Fabio De Luigi. C’è una lista infinita di comici che provengono da “Mai dire gol”. E’ stato un grande trampolino di lancio e un grandissimo divertimento.
Qual è stato il ruolo più difficile da interpretare nella tua carriera?
Ogni personaggio ha le sue difficoltà, soprattutto se è un personaggio che ha caratteristiche umane lontane dalle tue. Però magari, proprio perché è un personaggio diverso da te, riesce ancora meglio, perché riscopri aspetti sconosciuti e rendi di più. Sicuramente Don Puglisi e Cirinnà sono stati quelli che mi hanno impegnato di più e mi hanno caricato di più responsabilità, trattandosi di personaggi realmente esistiti. E’ stato uno studio interessante, perché abbiamo preso un po’ le caratteristiche psicologiche e cambiato un po’ i personaggi.
Come giudichi i mondi di televisione, cinema e teatro dell’Italia di oggi? Quali aspetti miglioreresti?
Sono tre linguaggi differenti, che al giorno d’oggi seguono la decadenza totale che sta seguendo il Paese. Stiamo precipitando nell’abisso molto velocemente. Migliorerei un po’ tutti e tre questi mondi. Una volta, ad esempio, al teatro si partiva dalle idee, dal copione, dal testo, dallo spettacolo e dalla proposta culturale. Adesso si parte dal nome, dalla persona famosa e il testo diventa secondario. Questo è un aspetto pericoloso e nemico della creatività. Ci sono personaggi e artisti straordinari che magari non sono conosciuti, che non hanno fatto un percorso televisivo e che rischiano di rimanere sconosciuti ed è un grosso problema. Viviamo in un mondo di apparenze e abbiamo una società sempre più legata a valori superficiali. E’ diminuita tantissimo la produzione cinematografica, teatrale e di fiction. La cultura nel nostro Paese purtroppo non è uno degli aspetti più considerati. L’unico settore in cui si è speso in questi anni è quello degli armamenti. Sono diminuiti gli investimenti nella sanità e nella cultura. In un ambiente del genere è difficile sopravvivere e fare delle proposte. Non è un buon momento.
Dove ti vedremo prossimamente? Hai qualche nuovo progetto da presentarci?
Il prossimo anno ho in programma tanto teatro e un nuovo spettacolo. Si tratta di “Alle cinque da me” di Pierre Chesnot, che debutterà al Festival di Borgio Verezzi e sempre in coppia con Gaia De Laurentis. Poi c’è un progetto con Giorgio Gallione, un regista con cui lavoro da circa trent’anni, e un altro progetto teatrale. Infine, sto portando in giro una cosa a cui sono molto legato e che sta andando benissimo, oltre le nostre aspettative, ed è un progetto con un chitarrista classico. E’ un melologo, cioè un insieme di parole e musica in cui le parole sono legate alla musica un po’ come nelle canzoni. Anche se non si canta, ma si recita, il legame con la musica è strettissimo. E’ un testo di Juan Ramon Jimenez, un premio nobel per la letteratura che ha scritto “Platero y yo” e lo stiamo portando in giro. Sono almeno tre progetti teatrali che stanno partendo. Senza dimenticare nemmeno “Mai nessuno la baciò sulla bocca”, che porterò in giro.
Il nostro portale si chiama “La voce dello schermo”. Cosa significa per te ascoltare la voce dello schermo?
E’ una voce molto importante e molto diffusa. Molti la demonizzano, ma penso che sia sbagliato. Dipende sempre da come si usa ma è uno strumento straordinario che riesce ad entrare nelle case delle persone ed ha una forza comunicativa notevole.