Ivano De Matteo ci ha abituati a film di grande impatto emotivo e che offrono allo spettatore tantissimi spunti di riflessione, come “Mia”, “I Nostri Ragazzi”, “Gli Equilibristi”, “La vita possibile” e tanti altri. Dal 24 aprile esce nelle sale “Una Figlia”, il suo nuovo film con protagonisti Stefano Accorsi, Ginevra Francesconi, Michela Cescon e Thony, prodotto da Rodeo Drive con Rai Cinema e distribuito da 01 Distribution. Il film esplora il rapporto tra genitori e figli, sia seguendo la scia del recente “Mia” e di altri film di De Matteo sia analizzando il punto di vista di un genitore che deve convivere con un grave gesto commesso dalla figlia e che si chiede come possa perdonarla. Abbiamo avuto il piacere di intervistare, su “La voce dello schermo”, proprio uno dei registi più interessanti del panorama italiano: Ivano De Matteo. Ivano ci ha presentato “Una figlia”, ci ha confidato le motivazioni che l’hanno portato alla realizzazione del film e ci ha raccontato altri interessanti aspetti della propria carriera da regista e da attore. A voi…

Salve Ivano, benvenuto su “La voce dello schermo”. Dal 24 aprile vedremo nelle sale “Una figlia”, film da te diretto con protagonisti Stefano Accorsi, Ginevra Francesconi, Michela Cescon e Thony. Cosa dobbiamo aspettarci?
Salve a tutti, grazie. C’è da aspettarsi un film molto vicino a diversi film da me diretti come “Mia” e “I Nostri Ragazzi”. È una storia molto forte e che esplora il rapporto tra genitori e figli.
Racconta di un padre che ha cresciuto la figlia da solo dopo la perdita della moglie e che, nel momento in cui vuole rifarsi una vita, lei reagisce male e commette uno sbaglio… Perché ci tenevi a esplorare questa tematica?
Nella ricostruzione della nuova famiglia e l’avvicinarsi a un nuovo elemento, in questo caso estraneo alla ragazza, può anche comportare dei rifiuti nell’accettare la sostituzione della propria madre con un’altra donna. In “Una Figlia” è presente una reazione molto forte che dà il via a tutto il film e che farà riflettere sul percorso di questa ragazzina dopo il reato.
Il film segue la citazione: “Un figlio deve smettere prima o poi di essere un figlio, ma un genitore non può mai smettere di essere un genitore”. Cosa significa per te?
L’abbiamo estrapolata dal libro a cui ci siamo ispirati (“Qualunque cosa accada” di Ciro Noja ndr.) e significa tanto, essendo anche noi genitori. Mentre, a un certo punto, i figli devono staccarsi dal nucleo familiare per farsi una propria vita; un genitore in qualche modo, anche con il pensiero continuo e costante, cerca di vedere dov’è il figlio, di sapere ciò che fa e di tentare di proteggerlo.

“Una figlia” segue un po’ la scia di “Mia”, come hai sottolineato, parla del conflitto tra genitori e figli e degli errori che si possono commettere, specialmente in giovane età. Perché è importante raccontare questo contrasto?
Quando scriviamo, lo facciamo sempre da genitori. Notiamo che c’è un po’ di incomunicabilità, cerchiamo quindi di ricreare quella frattura che c’è tra noi e loro, senza interferire nella loro sfera privata, senza mostrare una forma di supponenza nel sostenere che noi conoscevamo meglio le cose, ma provando ad avere sempre un momento per parlare e per confrontarci da genitori a figli.
Il conflitto tra genitori e figli è stato sempre presente in tutte le generazioni, come cambia secondo te, nel 2025?
Ovviamente, in questo periodo storico entra in gioco anche la parte social che coinvolge i giovani. La socializzazione, che per noi avveniva in altro modo, adesso è totalmente differente. Credo dipenda da questo e da altri fattori, ma penso che adesso ci sia un divario un po’ più grande rispetto a quello che c’è stato tra me e mio padre o tra mio padre e mio nonno.
Secondo te, si ha più paura che i figli siano vittime degli errori altrui o che facciano loro degli errori?
Credo sia in qualche modo una preoccupazione circolare. In questo caso la ragazza è una ‘carnefice’, ma potrebbe essere la famosa vittima di un sistema o di qualcosa di più grande di lei. Non riuscirei sinceramente a giudicarla.
Come mai questa inversione di tendenza da “Mia” a “Una figlia”, in cui si passa dal raccontare di una vittima a una carnefice?
Volevamo esplorare il contrario rispetto a quanto fatto in “Mia”. Mentre nel film precedente mostravamo un punto di vista più semplice da condividere; in “Una figlia” mostriamo come si riesce a essere il genitore del ‘cattivo’ e diventa più difficile raccontarlo. A me e alla mia compagna (Valentina Ferlan nrd.), che è anche sceneggiatrice del film, piace accendere le luci nella parte più buia dell’essere umano, quindi di noi stessi, e fare riflettere su ciò che può capitare a un ragazzo, minorenne o molto giovane, nel momento in cui commette un reato senza accorgersene. Dopo averlo commesso, però, c’è una strada lunga e dura da percorrere.
Come pensi si possa perdonare un figlio che commette gesti del genere?
Non so, spero di non dover affrontare mai questo tema, avendo una figlia di diciotto anni e un ragazzo di ventitré. Credo, però, che in qualche modo, fatta eccezione per alcuni casi, si trova sempre un modo per perdonare.

Ogni regista ha i propri segni distintivi, il suo marchio di fabbrica, la sua “Z” di Zorro. Quali pensi siano i tuoi?
L’esplorazione del nucleo familiare, affrontata in film come “I Nostri Ragazzi”, “Gli Equilibristi”, “La vita possibile” e in cui ho raccontato temi come la violenza sulle donne, i padri separati, il revenge porn, le armi e credo siano caratteristiche che contraddistinguano il mio cinema. Dal punto di vista tecnico, invece, cito sicuramente il girare in analogico e con la pellicola.
Hai sempre proseguito contemporaneamente i percorsi da attore e da regista o c’è stato un passaggio da uno all’altro?
No, ho sempre fatto entrambe le cose. Ho iniziato a teatro e facevo sia attore sia regista della mia compagnia, dirigevo i miei spettacoli ed ero anche protagonista. Ho iniziato con “La Divina Commedia” e ho finito con “Arancia Meccanica”. Poi ho fatto diversi documentari, girandone circa dieci, e infine sono passato al cinema.
Da regista come si riesce a farsi seguire dagli attori?
Ho sempre diretto a teatro loro e me stesso, ho imparato tanto nella scuola diretta da Perla Peragallo, attrice degli anni ’70, e avendo fatto l’attore risultava tutto più semplice. Mi diverte molto, tanti attori hanno voglia di lavorare con me perché ho una grande cura nei loro confronti e prima di girare proviamo tutte le scene.
Ogni film che si realizza diventa come un figlio. Ce n’è uno che rappresenta un motivo di orgoglio in più?
Sono contento di tutti i miei film. Quando si hanno figli, può capitare che ci sia quello più problematico, tra tutti i miei film quello che ha avuto più problemi e a cui ho cercato di dare una grande mano è stato “La bella gente”. È un film che ha sofferto molto.
Da attore quali sono, invece, i ruoli a cui tieni particolarmente?
Ovviamente quello che ha avuto un maggiore riscontro è il Puma di “Romanzo Criminale – La serie”, quello a cui sono più legato forse è “Gente di Roma” di Ettore Scola, che mi ha regalato il piacere di aver lavorato con un maestro come lui.
Questo portale si intitola “La voce dello schermo”. Cosa significa per te ascoltare la voce dello schermo?
Ascoltare è l’aspetto che più mi affascina di questo mondo. Non parlo tanto, ma ascolto molto. Ascoltare la voce dello schermo significa dover rimanere davanti alle immagini e seguirle perché trasmettono tanto e possono insegnare qualcosa.
Di Francesco Sciortino