“Rocco Schiavone” si appresta a concludere la sua sesta stagione su Rai 2 dimostrandosi un prodotto che non lascia trasparire minimamente i segni del tempo, anzi più va avanti, più consolida il proprio legame con il pubblico. Abbiamo intervistato su “La voce dello schermo” Massimo Reale, che interpreta uno dei personaggi più amati della serie: Alberto Fumagalli. L’attore e sceneggiatore ci ha confidato gli aspetti che ama del suo personaggio e della serie diretta da Simone Spada e prodotta da Cross Productions, ci ha svelato quello che, secondo lui, è il segreto dell’eterna giovinezza televisiva di “Rocco Schiavone” e quali sono le scene che preferisce girare con Marco Giallini. Ma non finisce qui, Massimo ha anche parlato di cosa abbia significato per lui curare le sceneggiature di prodotti come “Le indagini di Lolita Lobosco” e “Vincenzo Malinconico” e del suo amore per il teatro, sbocciato quando aveva nove anni. A voi un’interessante chiacchierata con Massimo Reale tra “Rocco Schiavone”, “Skam”, il teatro e il mondo della sceneggiatura…

Salve Massimo, benvenuto su “La voce dello schermo”. Ti stiamo vedendo in queste settimane nella sesta stagione di “Rocco Schiavone”. Quali sono gli aspetti che ami della serie?
Salve a tutti, grazie. “Rocco Schiavone” è un bel prodotto e sicuramente importante sotto tutti i punti di vista. Vanta la qualità della scrittura di Antonio Manzini e il grandissimo talento di Marco Giallini ed è un piacere recitare con un attore così bravo e che reputo uno dei migliori nel nostro Paese.
Cosa ti piace di Fumagalli?
Mi piace la sua originalità: è per certi versi geniale e per altri popolare. Quando ho iniziato a lavorare sul personaggio dissi che, secondo me, era come Margherita Hack, con una competenza infinita ma parlava come mia nonna quando preparava la ribollita! (ride ndr.)
Come si riesce a trovare gli stimoli per interpretare un personaggio per tanti anni?
Fa parte del lavoro dell’attore cercare di andare sempre più a fondo in ciò che sta facendo. Non stancarsi di approfondire, di inventare e di rendere sempre più vero qualcosa che non esiste sono sicuramente aspetti fondamentali.
Nella serie assistiamo a tanti siparietti che riguardano te, Marco Giallini e Lorenza Indovina. Tutti e tre mostrate umorismi differenti e appartenenti a regioni diverse. Com’è stato esplorare queste situazioni?
Magari nella nostra televisione si vede poco, ma l’Italia è così: assistiamo continuamente all’incontro tra dialetti e culture differenti ed essere tutti molto diversi e uguali allo stesso tempo fa parte della nostra specificità. Non è una cosa che ho sperimentato sul set, ma nella vita. Sono fiorentino, vivo a Roma, giro l’Italia e sento tanti dialetti e voci differenti, percepisco la simpatia con la quale è accolta una cadenza diversa o le differenze che sperimenta. Non ho mai avuto, in realtà, l’impressione di trovarmi di fronte a qualcosa che non conoscessi già.
Tra le sei stagioni, c’è qualche scena che ti è rimasta particolarmente impressa e che porti nel cuore?
Mi affascinano le scene delle autopsie, tutte! Ho un debole per i dialoghi che avvengono attorno al cadavere con Marco e mi diverte sempre ricordarle.
“Rocco Schiavone” nella longevità mantiene una qualità altissima. Qual è, secondo te, il segreto dell’eterna giovinezza della serie?
“Rocco Schiavone” non sta dietro a un ritmo produttivo ma segue quello artistico dell’uscita dei libri. Molto spesso, per poter realizzare una serie ogni anno, accade che prima esce il prodotto televisivo e poi il libro, ottenendo a volte anche sviluppi differenti tra i due prodotti. Invece, quella che arriva in mano ai bravissimi sceneggiatori di “Rocco Schiavone” è un’opera letteraria importante, quella di Antonio Manzini. Questo comporta da una parte tempi più lunghi per il pubblico, ma dall’altra il poter mantenere alta la qualità della serie.
Un altro prodotto amatissimo dal pubblico che ti ha riguardato è stato “Skam”. Cosa ricordi di questa esperienza?
Sono rimasto sicuramente colpito dalla qualità registica di Ludovico Bessegato, che ha le idee molto chiare e sa dirigere bene gli attori e non sono caratteristiche che tutti possiedono.
Quali reputi siano state le tappe e gli incontri che hanno segnato positivamente la tua carriera?
Ho cominciato a muovere i miei primi passi su un palco a nove anni e la precocità è stato un vantaggio, perché ho amato quest’arte sin dal primo momento e non ho mai desiderato altro che recitare o scrivere. La persona che mi ha introdotto all’interno di questo mondo è stata Dino Parretti, che aveva una piccola scuola di recitazione per bambini a Firenze. È stata sicuramente una persona importante per me. Un altro incontro indimenticabile fu quello con Bruno Corbucci, con il quale feci “Classe di ferro” e mi diede la possibilità di recitare in una serie importante, pur essendo molto giovane. Infine, ricordo Carlo Macchitella che mi ha avvicinato al mondo delle sceneggiature. Anche lui è scomparso tempo fa ed è sicuramente un’altra persona a cui devo qualcosa.
Sei anche sceneggiatore, come si riconosce un prodotto valido?
Leggendolo, se ti appassiona, ti diverte o riesce a commuoverti, lo farà anche con il pubblico e sarà una buona sceneggiatura.
Hai curato le sceneggiature de “Le indagini di Lolita Lobosco” e “Vincenzo Malinconico, avvocato d’insuccesso”. Qual è il fascino dell’essere sceneggiatore?
Ho un maestro anche in questo ambito: Massimo Gaudioso ed è un’altra persona fondamentale che mi ha accompagnato, assieme a Daniela Gambaro, durante la prima stagione di “Lolita Lobosco”. Scrivere sceneggiature ti offre l’opportunità di inventarti un mondo alternativo. Ho lavorato in tanti progetti, ma ho seguito “Le indagini di Lolita Lobosco” dal primo minuto ed è stato un viaggio straordinario, perché avevo anche dei compagni formidabili. Massimo ha curato la sceneggiatura di prodotti come il film di “Gomorra” e “Io Capitano” e far parte di quell’universo e costruire qualcosa di interessante è molto bello.
Come cambia un testo da un romanzo alla sceneggiatura?
La serie ha delle esigenze perché all’interno di un libro puoi scrivere qualsiasi cosa, ad esempio la frase: “esplode un’astronave, una cometa cade sulla Terra e muoiono tutti” e ciò accade nella testa di chi legge. In una sceneggiatura quello che viene scritto comporta dei costi e dei lavori differenti. In un libro ci si affida alla fantasia rispetto al pensiero del protagonista, in una serie televisiva il pensiero diventa dialogo, altrimenti il pubblico vedrebbe un personaggio che sta zitto e non fa nulla. Sarà fondamentale, quindi, creare un personaggio che permetta al protagonista di esprimere i propri pensieri in modo da avere una spalla che nel romanzo non è presente perché non serve. Il libro segue la fantasia, il film segue l’occhio.
Ci sono altre esperienze della tua carriera che vorresti citare?
Andrò in scena con “L’Uomo Sottile” e la mia vita teatrale è per me fondamentale e nutriente. Sarò a Roma e a Napoli e con questo monologo di Sergio Pierattini. Il teatro sta alla base della narrazione e i temi della quale li abbiamo ereditati dalla tragedia greca.
Quanto è importante per te salire sul palco?
È una cosa naturale per me. Ci sono salito a nove anni, ne ho cinquantotto e continuo a fare le stesse cose che facevo a quell’età. Fare teatro per me significa continuare a vivere una dimensione che mi accompagna sin dall’infanzia.
Cosa ricordi della prima volta che sei salito su un palco?
L’euforia e la bellezza. Ho due momenti molto chiari in mente riguardanti il mio legame con la recitazione: la prima volta che vidi due bambini recitare e la prima volta che andai in scena. Il primo momento è stato quando andai a vedere uno spettacolo al Teatro della Pergola di Firenze, ricordo che stetti in piedi tutto il tempo e rimasi profondamente affascinato da ciò che vedevo. Il secondo, invece, quando entrai in scena per la prima volta e ricordo la grande emozione e la grande voglia di sentire che stavo facendo una cosa realmente bella e così è stato.
C’è ancora questa euforia?
C’è concentrazione e serietà perché credo che una persona che viene a vederti a teatro abbia il diritto di ricevere il meglio che sai fare. È una sensazione che ho avvertito molto al teatro greco di Siracusa: sentivo la responsabilità di far vedere il rispetto che provavo nei confronti del pubblico, che fa chilometri per uno spettacolo. Salire su un palco mi dà tanta gioia e lo faccio con grande concentrazione, con voglia di fare bene e con profondo rispetto per chi si trova in sala.
Questo portale si intitola “La voce dello schermo”. Cosa significa per te ascoltare la voce dello schermo?
Significa sentire delle storie umane e ascoltare con interesse delle vicende.
Di Francesco Sciortino