Matteo Martari è uno degli attori più amati e apprezzati del panorama italiano. Abbiamo ammirato la sua facilità nel cambiar pelle e nel passare a personaggi profondamente diversi tra loro: da l’ispettore Paolo Costa in “Brennero” ad Alberto Ferraris di “Cuori” fino ad arrivare a Marco Buratti ne “L’alligatore”. In occasione del gran finale di stagione di “Brennero” abbiamo intervistato proprio Matteo per chiudere in bellezza il nostro viaggio all’interno della prima stagione della serie diretta da Davide Marengo e Giuseppe Bonito e prodotta da Cross Productions. L’attore ha parlato di Paolo Costa, dell’entusiasmo per aver interpretato un personaggio così interessante, di cosa abbia significato per lui far parte di “Brennero” e di cosa abbia amato del progetto. Ma non è tutto. Abbiamo parlato della sfida che rappresenta per un attore vestire i panni di protagonisti così lontani dal proprio modo di essere e di quale sia il modo di approcciarsi a essi. Inoltre, abbiamo chiesto qualche dettaglio sulla terza stagione di “Cuori” e abbiamo ricordato gli anni nella serie “L’alligatore”, un prodotto che secondo noi si è concluso troppo presto e che avrebbe meritato maggiore longevità. Infine, Matteo ci ha confidato un desiderio che gli permetterebbe di conciliare due passioni della sua vita: la recitazione e le auto. A voi…
Salve Matteo. Benvenuto su “La voce dello schermo”. Partiamo da “Brennero”. Quella che inizialmente sarebbe potuta sembrare una scommessa, vista la particolarità di stile e delle tematiche, ha conquistato pubblico e critica. Cosa hai amato di questo progetto?
Salve a tutti, grazie. Beh, se si fosse trattato di una scommessa sarebbe sicuramente una scommessa vinta. “Brennero” è un progetto incredibile, ben fatto, curato nel dettaglio e sono stato affascinato da diversi aspetti: dal tipo di personaggio che ho avuto la fortuna di interpretare, Paolo Costa, dal tipo di scrittura e dall’ambientazione, diversa dal solito, ma che mi ha conquistato. Si tratta sicuramente di un bel prodotto.
Cosa ti ha messo alla di Paolo Costa?
L’aspetto più complesso nell’avvicinarsi a Paolo è stato il suo grande senso di colpa per la perdita della compagna, trattandosi di un peso morale e psicologico che non è mai semplice mettere in scena. Avendo perso anche una gamba, possiede dei dolori che lavorano su diverse percezioni fisiche e mentali che convogliano nello stesso punto.
Paolo Costa incarna la voglia di rialzarsi e di rivalsa. Nel tuo lavoro ci sono stati dei momenti che hai dovuto fare uscire questi stati d’animo? Come riesci ad approcciarti alle difficoltà?
Per noi attori è un ciclo continuo e tra un contratto e l’altro dobbiamo un po’ innescare questo meccanismo. Alle difficoltà mi approccio piano piano, ma in maniera frontale! (ride ndr.)
Com’è stato essere diretto dal duo Marengo–Bonito?
Sono due registi fantastici, un po’ diversi tra loro come approccio al set ma entrambi portano una grande calma e pace sul set. C’è una grande possibilità di dialogo e questo aspetto dà la possibilità alle cose di crescere. Posso soltanto ringraziarli di avermi ascoltato e di aver dato credito a eventuali proposte che ho fatto. È stata una gran bella collaborazione.
Facciamo un salto nel tempo: Marco Buratti ne “L’alligatore” era un personaggio molto particolare, un po’ come Paolo, tormentato e con delle ferite. Cosa hai amato di lui?
Si trattava di un personaggio molto affascinante, Massimo Carlotto ha scritto dei romanzi molto interessanti e avvincenti. Purtroppo ne abbiamo messi in scena poco meno della metà. Far parte di questo progetto mi ha dato la fortuna di poter andare a prendere in mano le corde musicali della mia terra. Ho lavorato per anni per cercare di togliere questa sonorità veneta che ci contraddistingue. Provare a ritrovarla e riproporla è stato bello. Avvicinarmi di nuovo un po’ alle mie radici credo mi abbia fatto bene all’anima.
Secondo te perché non si è creduto abbastanza in questa serie?
Non ho una risposta a riguardo, posso soltanto dire che mi dispiace.
Paolo e Marco a confronto: ti piace interpretare dei personaggi un po’ ‘maledetti’?
Diciamo che i personaggi che presentano la possibilità di raccontare qualcosa di concreto hanno sempre una parte accattivante. Non credo che ci sia qualcosa di affascinante nell’essere maledetti e nella maledizione, ciò che rende le cose interessanti è l’avvicinarsi a qualcosa di nuovo e di sconosciuto.
“Cuori” ti ha permesso di interpretare invece un personaggio amatissimo dal pubblico: Alberto Ferraris. Come si passa a personaggi così diversi?
Credo faccia parte del nostro lavoro, non siamo nessuno dei personaggi che interpretiamo e ogni volta che vestiamo i panni di qualcuno significa andare lontano da ciò che siamo noi. Per noi il lavoro è simile perché ci porta verso una direzione che non è la nostra. Poi, chiaramente, i personaggi tra loro sono molto diversi ma, a loro volta, sono molto distanti dal mio modo di essere. Ogni volta è una ricerca, un tipo di lavoro e non parto da una base di partenza di uno già interpretato per crearne un altro perché il punto di partenza sono io e non un personaggio.
Su ‘Cuori 3’ cosa puoi dirci?
Non molto se non che spero che parta presto. Non abbiamo ancora iniziato e diciamo che stiamo caricando la nave.
Ti è capitato molto di giocare con il look nei tuoi ruoli. Cosa sente un attore la prima volta che un personaggio prende vita in carne e ossa e nel momento in cui cambia il proprio aspetto?
Diciamo che l’attore vede prendere vita a un personaggio giorno dopo giorno ed è una scoperta che si fa gradualmente, non si crea l’effetto shock. Quello può esserci, ad esempio, nel momento in cui si fa una prova costume e si decide, insieme ai reparti, di farmi un calco, di truccarmi per otto ore e di invecchiarmi di sessant’anni. Anche se non mi è ancora successa una cosa del genere, lì un po’ di shock potrei avvertirlo! Tuttavia, la costruzione è giornaliera e non si ha l’effetto sorpresa.
Per un attore è fondamentale sperimentare, in che tipo di progetto vorresti sperimentarti?
Mi piacerebbe recitare in una biografia di qualche pilota e, in particolare, in quella di Colin McRae. È un pilota di rally scomparso e ritengo che le biografie siano qualcosa in cui è piacevole misurarsi.
Sarai in “Libera” e in “Maschi Veri”. Possiamo dire che continua un periodo entusiasmante?
Non saprei dirlo, sicuramente sono dei progetti interessanti e che meritano un’attenzione e spero di risentirvi a ridosso dell’uscita del progetto per parlarne meglio.
Se fossi un giornalista, che domanda faresti a Matteo?
È una cosa che non riesco nemmeno a immaginare. Forse, come prima cosa, chiederei: “Cosa vuoi da bere?”. Così, per rompere un po’ il ghiaccio e lui risponderebbe: “un caffè”. Non faccio il giornalista però! (ride ndr.) Magari mi capiterà di interpretarne uno un giorno per capire meglio il meccanismo della formulazione delle domande, sarebbe sicuramente interessante e ci sarebbe un sacco da imparare.
Questo portale si intitola la voce dello schermo. Cosa significa per te ascoltare la voce dello schermo?
È cercare di capire la sensibilità del pubblico, capire di che cosa ha bisogno e cosa vuole.
Di Francesco Sciortino