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Intervista a Ninni Bruschetta: “Il mio romanzo dia un messaggio per non abbandonarci alla ‘putruneria’” L’attore siciliano presenta “La scuola del silenzio” e ci regala una riflessione, tra realtà e fantasia, su alcune situazioni vissute da lui in prima persona.

Mag 28, 2024
Foto di Giuseppe Contarini

In questi anni abbiamo avuto il piacere di ascoltare diverse volte Ninni Bruschetta per parlare dei progetti televisivi, cinematografici e teatrali che lo riguardavano. Ci siamo confrontati diverse volte con lui parlando del suo amatissimo Duccio in “Boris” e di altre esperienze che hanno segnato la sua carriera da attore. Questa volta abbiamo ritrovato un Ninni inedito per parlare de “La scuola del silenzio”, il suo primo romanzo. L’attore ci ha presentato il libro edito da Harper Collins, un racconto di fantasia ma che non fa mancare tanti riferimenti realmente accaduti nella sua vita. L’amore per il teatro; l’allontanamento dalla Sicilia; il legame inossidabile con la propria terra che ti spinge, anche da lontano, a cercare di fare qualcosa per lei; il dover fare i conti con una mentalità spesso anestetizzata che non permette alla Sicilia di diventare, a tutti gli effetti, la regione che merita di essere. Sono queste alcune delle tematiche che “La scuola del silenzio” descrive e che l’autore ha cercato di evidenziare. Ne abbiamo parlato con Ninni Bruschetta, attualmente in tv nella seconda stagione di “Viola come il mare” e impegnato nella promozione del libro in giro per l’Italia, senza rinunciare ad alcune curiosità sulle ultime esperienze cinematografiche, teatrali e televisive dell’attore. A voi…

*Foto di Giuseppe Contarini

Salve Ninni. Bentornato su “La voce dello schermo”. Parliamo del romanzo che hai scritto e che stai presentando in giro per l’Italia: “La scuola del silenzio”. Da cosa nasce l’esigenza di raccontare questa storia?

Salve a tutti, grazie. Credo non si possa dire esattamente come nasca un romanzo, più che l’idea viene la voglia di scrivere, prendendo appunti e immaginando delle storie, sentendo l’esigenza di raccontare qualcosa. Questo romanzo nasce da un’esigenza di sublimazione del mio rapporto con “mia madre”, ovvero con la mia città e con la mia terra. Il racconto è di fantasia, ma i fatti sono collocati in uno spazio tempo che ho vissuto sia per quanto riguarda la direzione artistica di un teatro sia per l’obiezione di coscienza in un istituto per sordomuti. Nel racconto vediamo contrapposte una società meritocratica, quella dei sordomuti e che è la chiave di tutto; e una società non meritocratica, che rappresenta la nostra in generale e quella siciliana. Ho deciso di alternare i capitoli, utilizzando un artifizio letterario che mi ha permesso di trattare ogni argomento in modo speculare.

Quando hai cominciato a scriverlo?

Questo romanzo prende vita durante il periodo del lockdown. Avevo scritto una prima stesura ma in seguito l’ho riscritto totalmente. Inizialmente avevo buttato di getto una serie di accadimenti che sono poi diventati una riflessione sulla provincia, sulla burocrazia, sulla meritocrazia e che hanno esaltato la parte narrativa del racconto e gli hanno donato dei tratti tipici quasi del giallo, anche se credo sia più kafkiano, sul modello di Sciascia e degli scrittori siciliani che hanno parlato della loro terra.

Oltre a Sciascia e a Kafka ci sono stati altri autori che ti hanno ispirato?

Il libro ha tantissimi riferimenti agli autori siciliani, tra cui Giuseppe Fava, che raccontano non solo di questo malfunzionamento, ma anche di questa mentalità che noi chiamiamo “mafiosa” e che in realtà è diffusissima. La troviamo persino nel Vangelo e viene definita “la strada larga”, ovvero il passare sempre attraverso un sotterfugio per ottenere le cose invece che riuscirci attraverso il merito e le possibilità che noi abbiamo e che non sfruttiamo mai. Ricordo che nella prima stesura, avevo fatto una riflessione, in seguito eliminata perché troppo cronachistica, sull’assessorato alla cultura in Sicilia, che è sempre l’ultimo che viene assegnato e spesso affidato a chi meno influente, mentre cultura e turismo dovrebbero essere la chiave della nostra economia.

Cosa rappresenta “La scuola del silenzio”?

Richiama ovviamente la scuola dei sordomuti, ma rappresenta sia l’omertà che l’occultamento. In una parte in particolare tratto l’occultamento della memoria, che ho studiato leggendo l’istruttoria del processo Fava, in cui un pentito di mafia disse al giudice: “La cosa importante non era soltanto uccidere le persone ma, soprattutto, farle dimenticare”, ovvero togliere la memoria di ciò che avevano fatto e se ci pensiamo è anche un modus operandi tipico dei grandi regimi dittatoriali. Quest’anno mi sono ritrovato, casualmente, a fare l’attore in “1984” di Orwell ed è il libro che racconta meglio questo aspetto, perché il personaggio di Winston Smith era addetto alla cancellazione della memoria e faceva in modo che delle persone scomparse non si sapesse più nulla. La scuola del silenzio rappresenta, appunto, il far scomparire tutto quello che non va bene a chi comanda.

Nel libro parli del ritorno del figliol prodigo. È un tema che ti tocca particolarmente, perché?

Mi tocca perché fa parte della mia vita. Sono uno di quei siciliani che ha lasciato la Sicilia non per disperazione o reazione a qualcosa. Ho avuto un’infanzia felice, una famiglia bellissima e non avevo alcuna esigenza di andarmene. Avrei potuto fare l’avvocato con la mano sinistra perché avevo un padre bravissimo che faceva questo mestiere. Avendo scelto di fare spettacolo, ai miei tempi, in Sicilia non c’era proprio la possibilità di vivere di questo lavoro. Mi sono trasferito a Roma a ventotto anni e ho inventato, assieme a Francesco Calogero e a tutta la compagnia del mio gruppo, il cinema indipendente siciliano e una compagnia teatrale che veniva dalla provincia e che ha permesso di poter svolgere questa attività anche fuori da Roma. In seguito, nonostante abitassi ormai a Roma, sono tornato in Sicilia a 34 anni a fare il direttore del teatro di Messina, ho lavorato in tantissimi teatri, ho avuto la possibilità di fare anche cinema lì, essendo nate nel frattempo delle Film Commission. È proprio una mia caratteristica quella di andare e tornare in Sicilia, perché non riesco a staccarmi da questa madre meravigliosa.

Lasciare la Sicilia ti ha lasciato però alcune ferite…

È la dannazione dei siciliani: “Perché la Sicilia non è il posto più bello del mondo, in tutti i sensi, oltre che sul piano naturale e geografico?”. Ci sarebbe la possibilità di fare delle cose meravigliose e non si riescono a fare per pigrizia, per mentalità, per disaffezione o forse perché quando tu hai tutto non cerchi di migliorare le cose. Questo è proprio quello che noi paghiamo perché non riusciamo a emergere come società e come popolo ma soltanto come individui. È proprio ciò che venne raccontato da Giuseppe Fava quando disse che noi siciliani siamo convinti di essere i migliori del mondo ma non lo siamo perché non ci curiamo delle nostre cose.

Perché in Sicilia è difficile realizzarsi secondo te e l’allontanamento diventa quasi una tappa necessaria?

Citando un termine siciliano, per la “putruneria” ovvero un senso di pigrizia patologico che poi porta alcune persone, come quelle descritte nel romanzo, a non volere che neanche gli altri facciano qualcosa perché altrimenti sarebbero costretti a farla anche loro. È un aspetto che ho avvertito molto nel mio rapporto con la Sicilia. Era una cosa che diceva anche il primo produttore cinematografico che ho avuto: Gianni Raimondo, uomo molto intraprendente e fu il primo a produrre il nostro film “La gentilezza del tocco”.

Secondo te dipende dal cittadino o dalle istituzioni?

Le istituzioni sono sempre espressione del cittadino e del popolo, anche quando non c’è una democrazia. La democrazia è la rappresentazione del potere del popolo, ma è il popolo che decide anche di essere sottomesso. È una cosa molto triste ma anche molto vera. È stupido accusare i dirigenti e i politici o fare “Cappiddazzu paga tutto”, come scriveva Nino Martoglio, ovvero un modo di dire che attribuisce al potere colpe che non sono del tutto sue. Chi sta lì o è messo dal popolo, nel caso ci sia un sistema democratico, oppure è tollerato dal popolo. L’oppressione, come diceva Simone Weil, è stata accettata dagli uomini stessi quando sono riusciti a non farsi più opprimere dalla natura. Una volta che l’hanno sconfitta, fino a distruggerla quasi, gli uomini hanno cominciato a opprimersi tra di loro. C’è nell’oppressore una volontà, mentre nell’oppresso una tolleranza. Giuseppe Fava, venti giorni prima di essere ucciso, disse a dei ragazzi durante una conferenza: “Noi siciliani non sconfiggeremo mai la mafia fin quando non capiremo di essere tutti mafiosi”, perché metteva in luce proprio l’accettazione di essere sottomessi.

Ti piacerebbe tornare a tutti gli effetti in Sicilia?

Non tornerei da pensionato. Torno sempre, ho la casa al mare e se voglio godermi questa terra posso farlo anche adesso. Tornerei volentieri se mi fosse data la possibilità di fare qualcosa per la Sicilia. Una volta fui anche indicato come assessore alla cultura, ma chi doveva fare il presidente non vinse le elezioni. Se avessi la possibilità di avere un incarico di quel livello, lo farei volentieri ma dovrei scontrarmi con le difficoltà che racconto nel libro. Tuttavia, ogni volta che mi è capitato di farlo sicuramente ho sofferto, ma ho tenuto duro perché, l’aspetto più bello, è che è proprio il popolo che reagisce. L’ho vissuto, in prima persona, durante tutti gli spettacoli che ho fatto in Sicilia, registrando il record di incassi in tutti i teatri in cui sono stato, sia come direttore, sia come attore, che come regista.

Che reazione hai notato dalle tue esperienze?

Ho notato che il popolo risponde immediatamente a una proposta di qualità ed è proprio lo stesso che prima accettava una scarsa qualità a regalarti il successo. Il successo non è un articolo su un giornale o un applauso ma un accadimento: se fai delle cose importanti si crea un accadimento e c’è un successo. Il pubblico siciliano è uno dei migliori pubblici d’Italia perché è un pubblico coltissimo, attentissimo e amante delle cose belle perché a volte gli vengono negate per tantissimo tempo. Ci sono dei teatri che spesso hanno delle direzioni o delle gestioni che cancellano la qualità in favore di altri interessi, chiaramente di poco successo, e la gente ne soffre. Nel momento in cui torni e proponi qualcosa di qualità la risposta è immediata.

Scrittore, attore sia sullo schermo che sul palco. Come riesci a essere così poliedrico e a trovare tempo ed energie?

Il mio approccio iniziale con questo mondo fu teatrale, rappresentava una fuga dalla possibilità di fare l’avvocato, non avrei voluto confrontarmi con quanto fatto da mio padre durante la sua brillante carriera e non volevo vivere un rapporto di conflitto con la gente, dal momento che questa professione ti porta inevitabilmente a farlo. Negli anni ho appreso che quello che serve in questo lavoro è lo studio, ma continuo e incredibilmente ampio. Chi fa teatro e chi scrive deve conoscere la letteratura, il cinema, il teatro, l’arte e la storia. Trovandomi sempre a studiare, quando ho tempo per fare una cosa che non mi viene commissionata, un giorno decido di fare uno spettacolo teatrale, un altro di scrivere un libro o di fare un disco grazie alla pianista con la quale lavoro, perché è bellissimo fare più cose diverse e, in più, cambiare ti rende giovane. Quando ho pubblicato il primo disco della mia vita, con Cettina Donato, a un certo punto mi sono spaventato perché ero talmente elettrizzato dalla cosa che ho detto: “qualche giorno mi viene un infarto!”. Ora ho pubblicato il mio primo romanzo e ho un entusiasmo pazzesco perché quando entri in un ambiente nuovo ti senti un neofita, come uno che ha appena iniziato e questo ti ringiovanisce.

Foto di Azzurra Primavera

Un altro argomento a te caro, anche nei tuoi libri, è sempre stato il teatro. Secondo te, senza teatro un attore può essere definito tale?

No. Sarebbe come fare l’università senza aver fatto le superiori, le scuole medie o le elementari. Il teatro insegna tutto. Quando ricevo i complimenti per gli audiolibri che leggo, sottolineo che non sia teatro ma che me l’abbia insegnato il mio maestro delle elementari, perché a leggere ci viene insegnato a scuola e la recitazione è una cosa completamente diversa. Vale lo stesso per il teatro rispetto alle altre arti dello spettacolo: perché ti insegna i rudimenti, la tecnica e a comunicare perché quando fai teatro hai la responsabilità di comunicare direttamente con il pubblico, non soltanto perché lo fai dal vivo ma perché ti rivolgi a lui. Una volta che fai teatro poi puoi usare tutti i linguaggi che vuoi, ma la base di tutti quei linguaggi è quella. Per fare un esempio colto, i grandi conoscitori della metafisica e dell’esoterismo sostengono che quelli che conoscono il sanscrito siano in grado di parlare tutte le lingue perché è il ceppo di tutte e il teatro è il ceppo dello spettacolo.

Nonostante la propria importanza, il teatro ha sempre una rilevanza mediatica minore e per citare Fassbinder, come facesti tu durante una nostra precedente intervista, “Il teatro è in fin di vita, ma lo è sempre stato”…

Credo ci siano anche motivi storici che giustificano la cattiva attenzione nei confronti del teatro e risale al medioevo. Abbiamo la fortuna di avere avuto Dante Alighieri, ma abbiamo avuto una cultura medievale in cui i depositari della sacra rappresentazione, nonché della più grande storia mai raccontata, quella di Gesù Cristo, si misero contro il teatro e impedivano, esclusi i giorni di carnevale, ai guitti della Commedia dell’arte di fare teatro. Il teatro era sacro ma era una sacralità che non poteva essere toccata e veniva liberata soltanto durante il periodo di carnevale.
La cultura inglese, invece, è più vicina e più attenta al teatro e in Inghilterra è una materia scolastica perché il loro Dante Alighieri è Shakespeare.

Ti stiamo vedendo in “Viola come il mare” nei panni del nuovo editore Leonardo Piazza. Cosa ti ha colpito di questa esperienza?

Ho avuto la possibilità di lavorare nuovamente con Francesca Chillemi, con la quale avevo già recitato durante una delle sue prime esperienze in “Squadra Antimafia”. Averla ritrovata, matura e cresciuta e a fare un personaggio che ha creato tra di noi un rapporto professionale bellissimo, è stata la cosa più bella. Inoltre, ho dovuto interpretare una persona che ha un problema fisico ed è stato importante perché la condizione di chi non vive normalmente merita sempre un grande rispetto.

Se fossi un giornalista, che domanda faresti a Ninni?

Forse mi domanderei cosa ho voglia di fare domani, ma non ‘un domani’, proprio domani e risponderei che voglio coltivare ciò che ho sempre coltivato e che mi piace fare.

Nei mesi scorsi sei stato molto presente in televisione, “Makari”, “Lolita Lobosco”, “I Leoni di Sicilia”, “I Bastardi di Pizzo Falcone”. Quali di queste esperienze porti maggiormente a cuore?

Sicuramente “I Leoni Di Sicilia”, avendo anche fatto l’audiolibro, sono molto affezionato a entrambi i libri di Stefania Auci. Oltre a queste esperienze, ho fatto “Ricchi a tutti i costi” con Christian De Sica e Angela Finocchiaro che esce il 4 giugno su Netflix ed è stata una lavorazione bellissima perché quando fai le commedie con una bella produzione, un ottimo regista e bravi attori ti diverti da morire. Do appuntamento al 4 giugno su Netflix per questo film che mi è rimasto molto nel cuore.

Foto di Rocco Papandrea

Riguardo “Boris” cosa puoi dirci?

Posso dire che “Boris” si collega al romanzo perché è quello che ti fa fare un racconto sulla meritocrazia. Avere la fortuna di fare successo con un prodotto di grandissima qualità non capita a tutti. È stato un progetto, un programma, una serie tv e un film che sono nati con i provini, il confronto, lo studio e soprattutto con tre autori, tra cui il compianto Mattia Torre, che sono tra i più grandi geni della scrittura che abbiamo avuto negli ultimi trent’anni ed è un lavoro che rimane nei nostri cuori, non soltanto per il successo che ha avuto, ma perché è stato un accadimento importante e ha portato sullo schermo una critica ferocissima al Paese, che ci ha dato una condivisione incredibile e ci ha portato un affetto tra la gente che ti mette a tuo agio e che ti dimostra quasi la stima per aver realizzato quel prodotto.

Dove ti vedremo prossimamente?

Oltre alla promozione del libro, sarò prossimamente nella seconda stagione de “Il Patriarca” e a giugno mi trasferisco a Catania per rappresentare il secondo racconto di Sciascia, dopo aver fatto “Il mare colore del vino”, metterò in scena allo Stabile di Catania “La morte di Stalin”, tratto da “Gli zii di Sicilia”. A ottobre, infine, riprenderò “1984” dove faccio O’ Brien e sarà una lunghissima tournee che girerà tantissime città d’Italia.

Hai dichiarato, in una precedente intervista, che il tuo mentore è Battiato. Se la tua vita fosse una sua canzone, quale sarebbe?

“Centro di gravità permanente” perché è quello che cerco in fondo ed era un’espressione che Battiato aveva mutato da Gurdjieff, a sua volta suo mentore. Con lui scherzavamo molto su questo perché io sono più “guenoniano” e Guénon e Gurdjieff vivevano un rapporto di rivalità. Tuttavia, anche se c’è una differenza metodologica e strutturale nell’insegnamento di Gurdjieff, lo trovo fantastico perché era un grande cultore della vita pratica. Io amo molto la teoria però mi piace se può essere applicata alla vita.

Di Francesco Sciortino

By lavocedelloschermo

Francesco Sciortino, giornalista pubblicista dal 2014, appassionato di serie tv, cinema e doppiaggio. In passato cofondatore della testata online “Ed è subito serial”.

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